Effetti temporanei e permanenti del COVID 19 sulla città
di Valerio Cutini e Simone Rusci
Professore ordinario di Tecnica e Pianificazione urbanistica, Università di Pisa
Ricercatore di Tecnica e Pianificazione urbanistica, Università di Pisa
Queste righe sono scritte alla conclusione del primo mese di lockdown in Italia, quando ancora non è dato sapere quando – e con quali limitazioni, modalità e tempistica – sarà ripristinata la possibilità di muoversi liberamente all’interno delle città e sul territorio. Contengono quindi considerazioni che inevitabilmente sono segnate dalla provvisorietà, e dal destino di essere superate da eventi al momento imprevedibili. Ma contengono, come si vedrà, anche temi e considerazioni che appaiono destinati a sopravvivere al virus e a perdurare, probabilmente, nei modelli comportamentali.
Si sostiene infatti che eventi come l’attuale pandemia sono destinati a ripetersi, fatalmente alimentati dalla possibilità di interazione e dalla rapidità di movimento che la globalizzazione rende disponibili in modo capillare su scala planetaria: ciò che avviene su una bancarella di un mercato rionale in una città cinese causa dopo pochi mesi migliaia di morti a Bergamo, a Madrid, a New York. Quanto sembra materializzare in modo tragico l’effetto farfalla preconizzato da Lorenz (1972) e, con questo, le fattezze di un sistema complesso di scala globale che espone l’intera popolazione del pianeta a conseguenze imprevedibili di eventi remoti e sconosciuti.
In ragione dell’assenza di un vaccino, come è noto l’unica strategia di controllo e mitigazione della diffusione della pandemia è – in tutti i paesi del mondo – il social distancing, ovvero l’assunzione di misure tese ad allontanare fisicamente gli individui (1 metro? 1,80 m? 6 piedi?), limitando i contatti e le interazioni fisiche per evitare la trasmissione del virus. È opportuno interrogarsi sugli effetti che simili misure avranno nel tempo sullo spazio urbano, che dei comportamenti individuali e collettivi è allo stesso tempo teatro e matrice.
L’attuale condizione di incertezza lascia spazio a visioni diverse, che prefigurano scenari contrastanti: posizioni ottimiste, che leggono la crisi epidemica come un’occasione di palingenesi, il trampolino verso un nuovo futuro finalmente ripulito dalle ultime ebrezze della cultura della crescita, da tempo insostenibile; posizioni catastrofiste, che al contrario prevedono il crollo epocale di un sistema economico che ha garantito pace e benessere.
In campo urbanistico le esperienze di queste settimane sembrano rianimare i fuochi di contese e discussioni da tempo sopite; almeno in due direzioni. Il primo riaccende il tòpos della fuga dalla città; proiettando la vicenda episodica (e deprecabile) degli improvvidi che lasciano le aree di contagio per trascorrere il periodo di isolamento in luoghi di villeggiatura nel quadro più generale del rifiuto della agglomerazione urbana e nel profondo anelito a forme insediative di dimensione contenuta e a bassa densità.
Tutte le metafore interpretative della città che nell’ultimo secolo e mezzo hanno caratterizzato la cultura urbanistica – la città alveare di Le Corbusier, la città mercato del lavoro di Marx, la città-albero di Mumford, quella organica di Alexander e quella dell’interazione sociale di Hillier, fino alla città cibernetica informazionale di Foquet passando per tutte le metafore politiche ed estetiche che riconoscono nella città il luogo della partecipazione e della bellezza – convengono sulle caratteristiche che ad essa sono intrinsecamente connaturate: la condivisione dello spazio, la concentrazione, la prossimità, il contatto e l’interazione.
Una strategia comportamentale basata sulla riduzione/eliminazione di concentrazione, prossimità e contatto non potrà dunque che dar luogo, nelle sue conseguenze fisiche e spaziali, ad effetti sostanzialmente antiurbani.
In definitiva, si osserva come i rischi di contagio inevitabilmente connessi alla prossimità e alla concentrazione fisica vadano a sommarsi alle varie e multiformi diseconomie di agglomerazione – inquinamento, stress, alienazione dell’individuo, costo della vita, criminalità, perdita di contatto con la natura, etc. – che fino dalla prima età industriale hanno alimentato la spinta alla diffusione insediativa all’esterno della città. Nelle sue varie forme: da Thomas Jefferson alla garden city, da Frank Lloyd Wright fino allo sprawl suburbano e periurbano dei giorni nostri.
Da un simile punto di vista le piazze deserte, le città abbandonate, i mezzi pubblici vuoti ed i centri commerciali come unica lecita destinazione appaiono proprio la beffarda rivincita della dispersione suburbana: non è forse Broadacre – unità residenziali isolate, 4.000 mq per ogni nucleo familiare, assenza di spazi collettivi, uso esclusivo di mezzi di trasporto privati – la disappearing city che materializza in forme insediative il social distancing?
Su scala territoriale, il confronto tra le dinamiche del contagio nei grandi poli metropolitani e produttivi del nord con quelle delle aree periferiche e ultraperiferiche dell’Italia interna e del meridione sembrano alimentare alcune delle tendenze di delocalizzazione insediativa spesso auspicate e raramente applicate, sia nella forma più poetica e suggestiva della fuga dalla città verso i borghi storici – come di recente sostenuto, con vari accenti, da Stefano Boeri e Massimiliano Fuksas – sia nelle forme più argomentate e strutturali proposte dal Forum Disuguaglianze e Diversità sulla necessità di un riequilibrio territoriale e di una inversione delle politiche nazionali e regionali.
L’altro tòpos che pare dare segni di risveglio nel dibattito collettivo riguarda la città digitale, ovvero la capacità dei mezzi tecnologici forniti dall’informatica di surrogare – in parte, naturalmente – l’interazione fisica che costituisce il senso recondito del vivere urbano.
L’idea di una città digitale, già proposta negli anni ’80 agli albori dell’era di internet, e poi edulcorata nelle forme meno integraliste e decisamente più urbane della smart city, non può che risvegliare l’interesse dopo la dichiarata necessità di rifuggire contatti e interazioni fisiche.
Ormai da anni le tecnologie informatiche rendono concretamente possibile lo svolgimento di molte attività lavorative in assenza di vincoli spaziali, riscontrando benefici non solo nella ovvia riduzione di spostamenti e affollamenti – e nell’immediato di onerosi adeguamenti dei luoghi di lavoro – ma anche nella produttività e nell’efficienza lavorativa (Neri, 2017).
È prevedibile che molte attività che già si svolgevano in remoto a beneficio di limitate categorie di utenti vedranno al termine dell’epidemia estendere il proprio bacino ad una platea assai più estesa, che nei mesi di isolamento forzato ha avuto necessità e modo di sperimentarne i vantaggi: ci si riferisce – fra le altre – al commercio on-line, ai servizi di ristorazione a domicilio, alla cinematografia in streaming. In sostanza, l’isolamento imposto dal coronavirus ha alimentato per tali attività un’ulteriore spinta propulsiva a danno delle corrispettive attività spazializzate (negozi, ristoranti, cinema), con ciò accelerando una dinamica già da tempo in atto.
Non mancano riflessioni e proposte alla scala dell’abitazione, in questi mesi divenuta per molti una prigione. Gli esigui spazi domestici dei contesti metropolitani e la loro diffusa carenza di pertinenze esterne come giardini e balconi sembrano non aver retto allo stress della quarantena, aprendo nuove discussioni su quelli che dovranno essere considerati gli standard minimi dell’abitabilità.
Non solo: se davvero, come appare probabile, lo smart working resterà un lascito di lungo periodo della crisi epidemica, è evidente come lo spazio domestico dovrà ampliarsi per ospitare funzioni un tempo svolte nei luoghi di lavoro, attivando così un mercato immobiliare centrifugo che a parità di reddito disponibile sacrificherà localizzazioni centrali (unitariamente più costose) in favore di più ampie superfici di abitazione nelle aree più periferiche, in linea con il noto trade-off dell’economia urbana tra centralità e disponibilità di spazio.
Le risposte finora pervenute non sembrano rassicuranti. Sul fronte politico ancora una volta la risposta all’emergenza è da più parti ricondotta a forme di deregulation finalizzate all’immediata ripartenza economica, la città come sottoprodotto di un’edilizia auspicata e agevolata come volano di un motore che stenta a ripartire: strategie vecchie a problemi nuovi, destinate come accaduto nel recente passato, a generare costi più che benefici. Per non dire della meteora del condono edilizio, che orbita regolarmente attorno all’Italia e torna a luccicare nei momenti più difficili, ma anche una riproposizione della città diffusa in salsa social distancing.
In questo momento inevitabilmente confuso il dibattito urbanistico stenta a riorientarsi davanti a scenari tanto bruscamente alterati in poche settimane: è innegabile che tante delle colorite e visionarie proposte risultino scarsamente ancorate alle complessità territoriali e sociali. La “ritrazione dall’urbano” e l’auspicata fuga dalla città verso campagne e borghi abbandonati è una bella idea di facile presa, soluzione semplice e suggestiva a un problema complesso, che tralascia le cause che nei decenni hanno concorso alla formazione della grosse stadt e al contestuale abbandono dei centri minori, e che trascura l’esigenza di supportare la riscoperta di questi ultimi con una dotazione di accessibilità e servizi – ineliminabile condizione per la loro rinascita – per i quali oggi meno che mai sono reperibili risorse.
Più interessanti, ma ripidi, percorsi di approfondimento e discussione riguardano invece alcuni degli effetti del lockdown, come la diffusione dello smart working, dell’e-commerce e degli spettacoli in streaming, che sembrano destinati ad avere pesanti e dirette ripercussioni di lungo termine nell’organizzazione spaziale del territorio e della città, e che nel dibattito in corso sono derubricati alla sola scala dell’organizzazione funzionale e della loro intrinseca efficienza. Sono tuttavia temi che già da anni investono la società contemporanea, ponendo alla collettività e alla sua comunità scientifica l’interrogativo se sia possibile – e in quali forme – prefigurare una città alleggerita da negozi e luoghi di lavoro.
La crisi – come ogni crisi – ha portato ad emergere problemi e criticità che già esistevano, ma che le condizioni di stabilità consentivano di trascurare e porre in secondo piano, differendone la soluzione.
E la sfida – come in ogni crisi – sarà nel cogliere selettivamente nel cambiamento le opportunità, individuando e arginando gli aspetti, più numerosi, che minacciano di produrre nuove criticità, nuove povertà e nuove forme di marginalizzazione.
Bibliografia
Lorenz E.N. 1972, Predictability: Does the Flap of a Butterfly’s Wings in Brazil Set Off a Tornado in Texas? Presented before the American Association for the Advancement of Science, December 29, 1972 AAAS 139th Meeting.
Neri M. 2017 (a cura di) Smart working: una prospettiva critica. Tao Digital Library, Bologna.
Didascalie Immagini
Copertina: Wuhan, immagine durante il contagio
Fig. 1: Wuhan, la città deserta
Fig.2: Social distancing