Sulle radici statunitensi della Città Universitaria di Roma
Ricercatrice RTDA, Dipartimento di Architettura, Sapienza Università di Roma
A cavallo tra la fine dell’‘800 e gli inizi del ‘900 Roma è interessata da una stagione di grande cambiamenti: la popolazione passa da poco più di 200,000 abitanti al milione censito nel 1930 (Benevolo 1971), in un breve lasso di tempo sono elaborati tre piani urbanistici – 1881, 1883 di A. Viviani, 1909 di E. Sanjust de Teulada. Divenuta capitale d’Italia solo nel 1870, per la prima volta erano in atto tutte le trasformazioni necessarie a farne una moderna città capitale. Diverse sono state le figure che hanno contribuito a tale ambiziosa operazione di ridisegno, molte le influenze internazionali leggibili nei piani come nei progetti (Beese e Dobler 2018).
In modo particolare Marcello Piacentini nel 1916, appena rientrato da un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti (Sessa 2014), si apprestava a disegnare un nuovo piano per Roma. Nel disegno egli immagina un anello di parchi e giardini romantici (Duempelmann 2015), chiara interpretazione della visione urbana statunitense, a isolare la città esistente dai quartieri in costruzione[1]. Tutti i parchi e i giardini sarebbero stati connessi da viali alberati che avrebbero garantito “l’illusione di trovarsi costantemente nel Parco” (Piacentini 1916, p. 27). Di fatto a cavallo tra ‘800 e ‘900 l’Italia e gli Stati Uniti erano intente a inventare un disegno urbano capace di tradurre le ambizioni nazionali delle nuove classi emergenti e questo non aveva lasciato indifferente Piacentini, attento osservatore della scena americana[2].
Se la ricerca di nuovi modelli orienta la cultura americana a guardare all’Europa con un nuovo sguardo critico, ed in modo particolare a Roma[3], parimenti la cultura romana cerca e si nutre di quanto avviene in Nord America (Duempelmann 2015). La prima vera occasione di dare voce alla lezione americana arriva per Piacentini negli anni ’30, quando sarà incaricato del progetto della Città Universitaria.
I Campus e la Città Universitaria
Tra gli anni ’20 e gli anni ’30 del ‘900 i rapporti tra Piacentini e l’élite fascista ne favoriscono l’ascesa sulla scena nazionale: nel 1929 Benito Mussolini lo nomina membro dell’Accademia d’Italia, progressivamente egli diventerà l’architetto ufficiale del regime. Nel decennio a seguire spetterà a lui la regia dei grandi progetti urbani, fra tutti la Città Universitaria di Roma.
Il 14 Aprile del 1932 Piacentini scrive una lettera a coloro che ha scelto come compagni di viaggio – Pietro Aschieri, Giuseppe Capponi, Arnaldo Foschini, Giovanni Michelucci, Giuseppe Pagano, Gio Ponti, Gaetano Rapisardi – dove vuole condividere un sentimento, un “atmosfera spirituale” (Guidoni Sennato 1985, p. 46) come la definisce lui stesso, per l’invenzione della Città Universitaria di Roma. Alla chiamata sentimentale alle armi allega una planimetria del progetto e una ricca bibliografia tra riviste e volumi da cui attingere per la costruzione dei progetti. Fatta eccezione per due testi sull’architettura francese e uno sull’Università di Oslo (Guidoni Sennato 1985), il focus della raccolta è l’architettura statunitense, del resto erano gli americani ad aver inventato il campus (Turner 1984).
The American architecture of to-day di George Herold Edgell (Herold & Edgell 1928) e Schools buildings of today and tomorrow di Wallace K. Harrison e Clarence E. Dobbin (Harrison & Dobbin 1931) vengono indicati insieme a diversi articoli della rivista Architectural Record, che Piacentini possiede nella sua biblioteca personale, dove sono presentati la maggior parte dei campus americani costruiti o in costruzione negli anni precedenti[4]. La rivista dagli anni ’10 e fino alla fine degli anni ‘20 aveva cercato di fare il punto sul progetto del campus pubblicando su ogni numero un saggio monografico ricco di foto e disegni[5].
Gli anni tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono cruciali per la formazione superiore negli Stati Uniti: l’America ha bisogno di una nuova classe dirigente e dunque il numero d’iscritti cresce esponenzialmente in un breve periodo (Goldin & Katz 1999; Olin 2013). Questo spiega l’attenzione al progetto del campus in riviste come Architectural Record, e la generale centralità del tema nel dibattito architettonico di quegli anni (Edgell 1928; Turner 1984; Kapp 2018). Le questioni da affrontare sono molteplici: non tutte le università possono espandersi nel luogo in cui erano stati realizzati i primi edifici, questi spesso si trovavano al centro di medie e grandi città, dove il costo dei terreni era cresciuto nel tempo e dunque non era possibile immaginare l’acquisto di altri lotti edificabili. Pertanto una parte dei collage doveva essere ripensata completamente altrove.
Al contrario nei casi in cui questo non sarebbe stato possibile, Harvard e Yale per cintarne solo alcuni, lo spazio a disposizione sarebbe stato poco e il tema della crescita non facile da trattare sia per quanto attiene alle scelte di impianto che rispetto a questioni stilistiche. L’altro grande tema di dibattito riguardava, infatti, proprio il linguaggio da adottare: i primi college realizzati negli Stati Uniti nel XVII secolo facevano riferimento allo stile Georgiano coloniale o Gotico, entrambi affermazione del legame profondo con il passato della cultura statunitense e che pertanto rappresentavano ancora un valido riferimento. Al tempo stesso dopo l’Esposizione di Chicago l’America aveva scelto il classicismo come stile rappresentativo della nuova identità nazionale, dunque i campus che vedevano in seno alla costruzione di una nuova identità la loro stessa condizione di esistenza non potevano che guardare alla matrice classica. Tuttavia se questo appariva praticabile nei casi in cui i campus sarebbero stati rifondati ex novo, come avverrà a Berkeley, dove dunque lo spazio aperto e gli edifici avrebbero trovato forma e significato in un nuovo modo di intendere l’architettura e il paesaggio, più complicato si sarebbe rivelato accostare ad edifici gotici spazialità ed elementi tipologici di matrice classica.
Piacentini conosce molto bene quanto sta accadendo negli Stati Uniti, possiede nella sua biblioteca molti più di quanto inserisce nella bibliografica che invia ai progettisti di Sapienza, e il progetto della Città Universitaria che si appresta a condurre lo pone davanti a questioni non così distanti: anche a Roma è necessario realizzare un nuovo complesso di edifici in una zona distante e in espansione rispetto a dove erano collocate le sedi storiche di Sapienza, anche in Italia il dibattito sul linguaggio dell’architettura era molto vivo e riguardava parimenti la costruzione di una nuova identità nazionale.
L’indicazione per orientarci tra questo ricco corpus di opere alla ricerca di quei progetti che hanno di fatto influito sulla costruzione della Città Universitaria ci viene dalle sue stesse parole: in un articolo del 1935 in cui presenta il progetto di Sapienza sulla rivista Architettura, Piacentini cita solo sei campus: Virginia, Harvard, Columbia, Pennsylvania, Colorado e California (Piacentini 1935).
La prima lezione americana per Piacentini sembra riguardare la regia della visione sottesa alla costruzione dei diversi campus: Thomas Jefferson a Charlottesville misura la lunghezza del grande spazio longitudinale al centro del campus di modo da assecondare l’andamento del terreno e utilizzarne l’inclinazione naturale per esasperare il ruolo della Rotunda (Wilson 2009; Zuddas 2019).
L’edificio si trova infatti in posizione sopraelevata rispetto all’ingresso e domina la prospettiva centrale vista dal grande prato.
Nella nuova sede di Columbia a Morningside Heights, l’unico campus presumibilmente visitato da Piacentini nel corso del suo viaggio negli Stati Uniti, i diversi edifici sono posti in modo simmetrico intorno al “Pantheon” (Bergdoll 2014, p. 73) che, come a Charlottesville, ospita la biblioteca.
L’edificio è collocato su un ampio podio e, in questo caso alla maniera romana, separato dagli edifici circostanti. L’avvicinamento al campus per McKim Mead & White non poteva che avvenire da sud, in altre parole dal downtown di Manhattan, e dunque percorrendo l’unica inclinata simmetrica del lotto. La regia della visione era pensata per esasperare la percezione dell’edificio visto dal basso, raggiungendo la scalinata solo dopo aver percorso una lunga strada in discesa.
Piacentini nel progetto per la Città Universitaria stabilizza la composizione con un “suolo ottico” (Purini 2010, p. 249), ovvero collocando il Rettorato su un grande podio che gli permette di correggere l’andamento naturale del terreno e portare il piano dell’Aula Magna alla stessa quota del portico di ingresso. Questo garantiva al prospetto principale del Rettorato di dominare l’esperienza percettiva del visitatore che avrebbe percorso l’asse fino alla piazza, lasciandosi alle spalle i propilei.
Dall’ingresso della Città Universitaria si ha l’impressione di un impianto geometricamente risolto a mezzo della simmetria, laddove questa è solo apparente: l’intera composizione è sbilanciata verso Sud (Baratelli 2019). Gli edifici di Chimica e Fisica con i loro diversi pesi anticipano quello che diventa evidente una volta giunti davanti alla Minerva ovvero che lo spazio si allunga verso l’edificio di Matematica, dove è spostato il baricentro dell’impianto. Inoltre all’asse centrale fanno da contrappunto una serie di passaggi trasversali che indirizzano e conducono lo sguardo verso ulteriori luoghi, complementari alla spina disegnata dalla navata. Il medesimo sbilanciamento caratterizza l’impianto che John G. Howard disegna per Berkeley (Croly 1908), dove un percorso centrale è intercettato da vari assi trasversali. In questo caso il centro della composizione è spostato verso il fondo valle a ovest, dove Howard colloca anche gli stadi.
Anche nella Città Universitaria lo stadio era collocato a sud dopo l’edificio di Ponti a sottolineare lo sbilanciamento dell’impianto.
Lo stesso rapporto tra spazi principali e secondari che troviamo nella Città Universitaria e a Berkeley caratterizza il progetto per il campus di Boulder (Colorado) disegnato da Day & Kaluder. Il riferimento per i progettisti era stato il paesaggio collinare toscano (Dixon 1966).
Boulder, la cittadina dove si trova il campus, è caratterizzata dalla presenza di un sistema di rilievi minori che raccorda le grandi pianure alle Montagne Rocciose. I progettisti scelgono di porre l’accento sulla peculiare condizione orografica utilizzando i nuovi edifici sia per disegnare un sistema di corti di diverse dimensioni che per dare sostanza figurale ad un grande prato centrale, riproponendo alcuni dei rapporti propri del paesaggio insediativo toscano. La struttura simmetrica di base si arricchisce così di scorci e prospettive parziali ritagliate tra portici e logge che si aprono sullo spazio centrale principale.
La specie di spazio più iconica del campus americano resta senza dubbio il grande prato che diventa luogo di incontro e scambio per la comunità che ne condivide l’esperienza. La storia dello yard o lawn segue l’articolazione della cultura statunitense e riguarda parimenti la dimensione domestica – lo yard inteso come giardino privato – e la storia dei primi insediamenti dove il prato è collocato al centro del sistema modulare disegnato dalla griglia (Jenkins 1994; Wood 1997; Virga 1997). Se Piacentini seleziona l’impianto Basilicale per la costruzione della Città Universitaria, sul retro del Rettorato egli disegna un prato pensato per accogliere grandi riunioni e cerimonie studentesche (Baratelli 2019). La vegetazione alla scala della Città Universitaria era risolta da una serie di elementi compatti e volumetricamente definiti: per il viale principale erano stati scelti pini e cedri, a cui si accostavano nell’ultimo tratto due percorsi pergolati con rampicanti; per il piazzale erano stati disegnati due giardini di lecci le cui chiome erano potate geometricamente. Al contrario il grande prato non era stato disegnato da alberi o arbusti tanto meno traversato da percorsi, era concepito alla maniera americana come una superficie continua trattata omogeneamente a prato e utilizzabile in modo libero dagli studenti[6]. Inoltre l’accesso lungo Viale della Regina avveniva da un ingresso laterale e la scoperta del prato sarebbe stata progressiva, secondo una regia della visione opposta a quella assiale pensata per l’ingresso a Ovest.
Ultimo elemento proprio di diverse esperienze citate da Piacentini – Harvard, Berkeley, Pennsylvania più delle altre – è il principio di varietas proprio delle architetture dei campus. Volumi differenti e diversificati nella forma sono, come avviene nella Città Universitaria, accostati l’uno all’altro. Se questo nei casi di Pennsylvania e Harvard è la conseguenza di un processo di crescita non lineare – a Philadelphia in modo particolare l’università cresce inizialmente secondo un processo di addizione progressiva, in assenza di un disegno generale – a Berkeley il gusto beaux-art rappresenta solo l’indicazione stilistica di base perché gli edifici siano coerenti con la struttura dell’impianto, di fatto questi sono poi realizzati come variazioni sul tema, come avviene a Roma.
In estrema sintesi l’architettura della Città Universitaria sembra condividere la medesima sapienza topografica e il controllo della regia della visione di esperienze come Virginia e Columbia. Nella costruzione dei rapporti tra spazi principali e secondari, Piacentini ha potuto trovare conferma delle sue idee in progetti come Berkeley e Colorado. La varietà ha permesso a Piacentini di portare a termine un progetto ambizioso culturalmente quanto politicamente.
Il grande prato sul retro del Rettorato, che nel progetto originale era pensato come una superficie continua, appare come un omaggio alla cultura del campus, un tributo alla lezione americana.
Note
[1] L’anello comprendeva Valle Giulia, Villa Strohl-Fern, Villa Borghese, Villa Lancelotti, Villa Teresa e Villa Torlonia. Un ampio viale tra il Policlinico e l’Università che, dopo aver attraversato Villa Venturi, avrebbe portato al nuovo parco di Porta Maggior per poi raggiungere la passeggiata archeologica. Da questa attraverso un viale ai giardini del Gianicolo e Villa Pamphili. Dalle mura vaticane un collegamento avrebbe raggiunto il Parco Trionfale, fino alla Piazza d’Armi e a Valle Giulia, a chiudere il cerchio.
[2] Nel 1921 scrive per Architettura e arti decorative “Il momento architettonico all’estero” dove ragiona delle principali scuole d’architettura tra America, Europa e Russia (Piacentini 1921). L’anno successivo pubblica un articolo incentrato sull’influenza dell’arte italiana in Nord America (Piacentini 1922) e partecipa al concorso per il Chicago Tribune. La sua biblioteca, da lui stesso donata alla Facoltà di Architettura della Sapienza, dove ora si trova catalogata nell’omonimo fondo, racconta del suo vivo interesse per l’architettura statunitense: oltre a molti numeri di riviste quali Architectural Forum; Architectural Record e The American Architect, Piacentini possiede alcuni interessanti volumi di architettura civica, tra questi una copia del libro di W. Hegemann e E. Peets sull’architettura civica Americana (Hegemann & Peets 1922) e ancora il volume G. H. Edgell sull’architettura statunitense (Edgell 1928).
[3] Una delle tappe fondamentali per la nascita della pianificazione negli Stati Uniti è l’Esposizione Universale di Chicago del 1893 dove il potere di una nascente nazione e una nuova vita pubblica troveranno una delle loro più chiare concettualizzazioni nella costruzione dello spazio urbano. Roma, insieme ad Atene, Berlino e Parigi, rappresenta un punto di partenza fondamentale per i pianificatori, gli architetti, i paesaggisti e gli scultori che daranno forma al primo modello City Beautiful, configurandone l’estetica classica degli edifici e il paesaggio pittoresco dei sistemi di parchi. Non a caso Daniel Burnham, Charles McKim e Frederick Olmsted jr. visitarono Roma due volte nel 1901 e di nuovo nel 1908.
[4] Ai riferimenti indicati in bibliografia da Marcello Piacentini si aggiunsero negli anni le relazioni redatte da Gaetano Minucci cui Piacentini aveva dato l’incarico di una serie di ricognizioni attraverso l’Europa per approfondire l’architettura per la formazione. L’attenzione di Minnucci è rivolta ai caratteri strutturali e tecnologici degli edifici e non a questioni più generali legate alla definizione dell’impianto (Azzaro 2012) e che pertanto non hanno influito in modo determinante sulla costruzione del layout di Sapienza.
[5] Architectural Record Oct. 1909, 26; Feb. 1910, 27 e 28; Feb 1911, 29; July. 1911, 30; Dec. 1911, 30; May. 1912, 31; Oct. 1923, 54; June 1915, 37 tutti numeri segnalati da Piacentini nella bibliografia consegnata ai progettisti della Città Universitaria nel 1932.
[6] Vedi Archivio storico del patrimonio architettonico della Città Universitaria a cura di Carla Onesti, Fascicolo Città Universitaria, Volume 13 relativo alle sistemazioni esterne.
Citazioni e bibliografia
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Illustrazioni – didascalie
Copertina: Modello della Città Universitaria di Roma, Plastico A, rapp. 1:500 (da Casabella gennaio 1933)
Fig. 1: Virginia University di Peter Maverick, 1826 (da P. H. Kapp, “The University Campus in the United States—As a Designed Work to Produce Knowledge; and as an Artefact of Cultural Heritage”, in Built Heritage 2, 2018, p. 52)
Fig. 2: McKim, Mead & White, Columbia University, 1915 (da W. Hegemann e E. Peets, The American Vitruvius: an architects handbook of civic art, The architectural book publishing, New York 1988, p. 118)
Fig. 3: Jhon Galen Howard, University of California, 1902 (da W. Hegemann e E. Peets, The American Vitruvius: an architects handbook of civic art, The architectural book publishing, New York 1988, p. 116)
Fig. 4: Day and Kluder, University of Colorado, 1917 (da W. Hegemann e E. Peets, The American Vitruvius: an architects handbook of civic art, The architectural book publishing, New York 1988, p. 126)
Fig. 5: Harvard College (da W. Gropius, “The Human Scale”, in J. Tyewhitt, J. L. Sert, E. N. Rogers (a cura di), The Heart of the City: Towards the Hunnisation of Urban Life. CIAM 8/ International Congresses for Modern Architecture, p. 53)