L’armatura infrastrutturale pubblica dell’espansione urbana tra Roma e il Mare. Osservazioni sui disegni dei Piani Particolareggiati del Piano Regolatore Generale del 1931 nel quadrante sud occidentale tra Porta Portese e Porta San Sebastiano
Architetto, dottore di ricerca in composizione architettonica e progettazione urbana
Nella storia recente dell’urbanistica italiana, c’è stata una fase, breve ma molto intensa, nella quale il Piano regolatore era considerato un disegno di architettura, di pari dignità rispetto a qualunque disegno architettonico, sia esso riferito ad un singolo oggetto o applicato a spazi e strutture complesse.
Tra gli anni venti e i primi anni ’40 del secolo scorso, agli albori dell’urbanistica moderna, i Piani regolatori erano infatti considerati, al pari dei progetti di architettura, veri e propri disegni ideativi, per i quali venivano banditi concorsi pubblici di progettazione, nei quali si confrontavano le diverse capacità di formalizzazione della materia urbana e non solo di organizzazione funzionale della sua struttura.
Gli indirizzi di sviluppo della città, ovvero i programmi urbanistici, erano, infatti, prefissati dai committenti, in linea di massima gli stessi Comuni banditori e costituivano semplicemente la base di partenza programmatica dei concorsi, per la redazione dei Piani regolatori di massima.
Ciò che interessava le Amministrazioni non era il programma (che era spesso politicamente prefissato) piuttosto gli esiti formalizzati, ovvero il dispiegarsi, secondo le forme e i caratteri dell’architettura, del corpo trasformato della città, che, ideata dagli architetti, sulla base di disegni accurati, presentava sovente esiti plano-volumetrici anche molto diversi, all’interno dello stesso programmma-concorso, per una ragione molto semplice: perché all’urbanistica, si attribuiva un carattere artistico e non solo tecnico-organizzativo.
Per carattere artistico si deve intendere la capacità di immaginare la città come una materia plasmabile, composta di spazi aperti e di costruzioni, di abitanti e di comunità, di monumenti e di storie minori, che nell’insieme costituiscono un organismo vitale, per il quale possano valere tutti i principi del progetto di architettura.
Al pari dei concorsi di architettura, la sfida era legata alla capacità di produrre qualità, ovvero innovazione estetica e sociale, applicata all’intero corpo urbano. Questa ricerca passava attraverso la redazione di disegni ideativi, che rispondevano a precisi imput politici e che si distinguevano per la capacità di formalizzare e di comprendere i programmi delle amministrazioni locali. Il progetto regolatore, per usare un’ espressione significativa con la quale si indicava il Piano urbanistico generale, era considerato a tutti gli effetti un disegno d’architettura riferito alla città e le intenzioni di innovazione e lo spirito con cui ci si riferiva all’organismo urbano erano del tutto simili allo spirito con cui si costruisce o si ristruttura un edificio.[1]
Anche se il disegno tecnico della città non possiede, generalmente, il fascino e la sensualità vitale del disegno di architettura, che incamera più facilmente di quello urbanistico le qualità materiche dei corpi architettonici, restituendo i rapporti di luce e di spazio, il disegno della città, anche quello statico e formalizzato, meglio di ogni altro, si riferisce alla vita collettiva e ne coglie, straordinariamente, il tempo, riferendosi, costantemente, al complesso delle ragioni che animano e trasformano, nel corso della storia, le nostre società.
Da questo punto di vista il disegno della città, meglio del disegno architettonico, restituisce, con precisione, il quadro di un’epoca: le forze e le aspirazioni vitali ma anche gli errori di una intera fase storica. Da questo punto di vista il disegno della città è un documento della massima importanza perchè contiene, nelle scelte e nei segni, apparentemente freddi e tecnici, l’intera storia politica, economica e sociale di una comunità[2].
Scrive Giuseppe Bottai, in occasione del primo numero della rinnovata rivista “Architettura” diretta da Marcello Piacentini: la polemica per l’architettura può, a piacer suo, esacerbare nell’antitesi o comporre nel compromesso, i magri ideali delle colonne e del cemento armato. Il problema dell’architettura oltrepassa anche una più ragionevole polemica della forma: porta direttamente a quella condizione morale e mentale dell’architettura che è l’urbanistica. Com’è che tra tanti discorsi sulla funzionalità della forme pochissimi giungono a scoprire la funzionalità interna delle soluzioni urbanistiche? Di un urbanistica, si intende, non più pensata come illusione o teatro ma come condizione di civiltà e di lavoro; come livello comune di vita sociale (…) così la nuova urbanistica tramanderà il volto e non la maschera del nostro tempo. (Bottai, G., Nuova vita di” Architettura” in: Architettura n. 7, Luglio 1941.)
E’ con questo spirito, scevro da qualunque implicazione ideologica, che cercheremo di ripercorrere sinteticamente le vicende dello spazio che unisce Roma al Mare, in un arco temporale che comprende gli anni 30 e arriva ai nostri giorni, in attesa che una nuova stagione dell’urbanistica italiana possa presto aprirsi, rimettendo al centro il valore artistico del progetto della città.
- Note al disegno generale del Piano regolatore di Roma, 1931
Verso il mare, lungo la piana del Tevere compresa tra le colline portuensi, ad ovest, e i rilievi della Garbatella, ad est, la città immaginata da Marcello Piacentini, già prima degli anni venti (M. Piacentini: Sulla conservazione della bellezza di Roma e sullo sviluppo della città moderna , Aternum, Roma,1916), poi confluita nel disegno generale del Piano regolatore del 1931, coincide con l’idea di realizzare una grande area produttiva, all’interno di due profonde anse del Tevere, proiettate verso la pianura costiera.
Tutta la città bassa, coincidente con la grande piana alluvionale del Tevere, in direzione del mare è occupata, quindi, nel Piano del 1931, da una grande area di sviluppo industriale, che amplia decisamente l’intuizione del Piano precedente, noto come piano Sanjust (1909), il quale aveva eretto, nei pressi del monte Testaccio, lo stabilimento di mattazione su progetto di Gioacchino Ersoch, a breve distanza dal porto di Ripa Grande e dall’arsenale pontificio[3].
L’esperienza industriale romana, come è noto, è una parentesi breve della storia della città, della quale è importante ricordare che uno sviluppo delle attività produttive, in particolare di quelle chimiche legate alla produzione dei saponi[4], era stato tentato, nel primo novecento, ma subito avversato dalla chiesa (V. Vidotto, Roma Moderna, Laterzai, 2004 ).
A partire dai primi anni del secolo scorso si era ipotizzata la costruzione di un grande porto fluviale nella piana golenale della Magliana, in località Pian due Torri, la cui ansa avrebbe dovuto essere occupata, per intero, da un grande bacino di approdo delle merci e delle materie grezze, necessarie al funzionamento della limitrofa area industriale Ostiense-Marconi.
Ciò che colpisce, osservando l’area industriale di Roma, nella planimetria generale del Piano regolatore del 1931, è innanzitutto la sua dimensione, che è assai ragguardevole, se paragonata ad altre parti della città: equivalente, per intenderci, all’intero sviluppo del quadrante urbano Nord, cioè all’insieme del quartiere delle Vittorie, del Foro Mussolini e del tridente Flaminio.
Si tratta, perciò, di un cuneo produttivo, di dimensioni molto considerevoli, circa 280 ha, che nelle intenzioni del Piano Regolatore del 1931 avrebbe dovuto porsi in diretta comunicazione con il grande porto industriale previsto ad Ostia, attraverso il nodo intermedio del nuovo bacino fluviale di Pian due Torri, destinato allo scarico delle merci.
L’idea iniziale di sviluppo del quadrante Sud-Occidentale della città, “tra Roma e il mare”, comune ai due Piani Regolatori, della prima metà del ‘900 è, quindi, senza dubbio, intimamente legata all’idea di promuovere una vera e propria area industriale della città, radicata a valle e a monte delle alture portuensi, le cui dimensioni, testè richiamate, lasciano ipotizzare che, nelle intenzioni programmatorie dei Piani 1909-1931, questa grande area industriale avrebbe dovuto servire un bacino demografico assai più ampio di quello strettamente cittadino, specie se messo in relazione alla popolazione allora insediata a Roma[5]. L’idea di fondo, a meno di non considerare la dimensione generale e l’importanza delle infrastrutture previste come la costruzione di un grande porto fluviale nella piana golenale della Magliana e i 280 ha di aree produttive del Piano del 1931, un incredibile “errore tecnico”, era quella di trasformare Roma in una vera città industriale, con capacità produttiva nazionale.
A Sud-Ovest, quindi, in continuità con i progetti precedenti[6], il Piano del 1931 prevede, per tutte le parti basse, alluvionali, un carattere esclusivamente produttivo: oltre agli impianti dell’Italgas e della Mira Lanza è prevista la localizzazione di molte altre attività, all’interno di una griglia regolare che occupa le due sponde del Tevere fino all’altezza della Basilica di San Paolo ed anche oltre. Alcune cartografie dell’epoca mostrano l’area prima delle manomissioni degli anni cinquanta e sessanta, con la densità di infrastrutture che la caratterizzava, di cui è rimasto davvero pochissimo.
Quello che vogliamo sottolineare è che la relazione della Città con il mare doveva avvenire, inizialmente, sulla base di un progetto di espansione industriale, di dimensione nazionale, che aveva una testata urbana, prevalentemente produttiva nell’area Ostiense- Marconi e una coda infrastrutturale ad Ostia, considerata il nuovo porto della città.
Nei disegni del Piano regolatore del 1931, queste due polarità erano connesse da una infrastrutturazione doppia, sviluppata su entrambe le sponde del Tevere che serviva ad irrigare uno spazio, ancora del tutto libero da edificazione, la cui vocazione iniziale, a riguardare i documenti dell’epoca, doveva essere prettamente produttiva. La via Portuense, lato sinistro del Tevere e la via Ostiense, lato destro, entrambe carrabili erano affiancate da due linee su ferro, la nuova linea elettrificata Roma Ostia[7], sul lato destro del Tevere, facente capo alla stazione Ostiense e la Roma-Fiumicino, sul lato sinistro, facente capo alla stazione Trastevere, con le loro diramazioni locali, fornivano all’area quella accessibilità necessaria al suo programmato sviluppo industriale.
Tutta l’area, tra Roma e il Mare, era quindi fortemente irrorata da infrastrutture stradali e ferroviarie che anticipavano l’idea di uno sviluppo produttivo della città. Riguardando le cartografie storiche, non v’è dubbio che, dal punto di vista delle dotazioni infrastrutturali esistenti e in programmazione, l’area prescelta, per lo sviluppo industriale della città, non potesse essere migliore: pianeggiante, percorsa dal fiume, affacciata sul mare.
La connessione di Roma con il mare, non ha quindi, alle spalle, una storia “romantica”, fatta di ricerca di bellezza, di profumi di mare e di storia antica, piuttosto, che ci piaccia o meno, si fonda sull’idea, ruvida, di uno sviluppo industriale della città, fondato su una forte, moderna e capillare infrastrutturazione pubblica dello spazio. Tra Roma e il Mare, la città industriale moderna è, nell’immagine del Piano del 1931, un tassello monofunzionale, che si completa con l’idea di un uso mercantile dell’asta fluviale del Tevere, fino alle porte della città antica. L’asta fluviale del Tevere era pensata come vero e proprio connettore infrastrutturale multilivello[8] A questa idea di sviluppo fa da spalla, per così dire, la cintura urbana del ferro, che avrebbe dovuto innervare le parti periferiche della città[9]. Dall’anello ferroviario, tra Porta Portese e Porta San Sebastiano si staccano, infatti, alcuni dei tracciati ferroviari di maggiore rilevanza nazionale: la Roma-Civitavecchia e la Roma-Ancona[10] che connettevano l’Urbe con i due più grandi porti dell’Italia centrale. Il sistema ferroviario, che il Piano del 1931 aveva riunificato in un potente anello a servizio della città, con i due prolungamenti a cavallo del Tevere, avrebbe messo in diretta comunicazione i tre porti maggiori dell’Italia centrale: Civitavecchia, Ancona ed Ostia.
Se facciamo riferimento alle elaborazioni ufficiali dei Piano Regolatori, tralasciando le molte suggestioni promosse da privati per l’ambito tra Roma e il Mare, la più importante delle quali è senza dubbio la città di Andersen[11], se cioè ci riferiamo alle volontà politiche espresse dalle diverse amministrazioni pubbliche avvicendatesi nel periodo 1909-1962, dobbiamo constatare che la relazione tra la città di Roma e il mare avrebbe dovuto avere, fino alla fine degli anni ’50 del novecento, un carattere decisamente produttivo, che avrebbe lasciato poco spazio allo sviluppo residenziale di Ostia e del litorale, per come, oggi, lo abbiamo ricevuto e per come ancora possiamo immaginarlo. Una Roma industriale e proletaria venne avversata, dalle pressioni del Vaticano e interrotta dalle scelte di Mussolini che, con la localizzazione dell’EUR, nel 1938, sulle colline delle Tre Fontane, metterà fine all’idea di una Roma proletaria e insieme fine all’espansione industriale della città, in direzione del Mare.
- La coda della cometa ovvero lo sviluppo, a nuclei isolati, cosiddetti “a rosario”, di Giovannoni. Notazioni critiche.
L’epilogo fallimentare della “città industriale” di Roma non è l’esito di una scelta politicamente dichiarata e discussa, piuttosto appare come il risultato di una serie di pressioni e manomissioni, che possono essere descritte, in controluce, attraverso gli studi e le proposte urbanistiche che, negli anni immediatamente successivi all’approvazione del Piano del 1931, vengono elaborate da autorevoli studiosi romani, primo fra tutti Gustavo Giovannoni, che pure aveva partecipato alla stesura del Piano ufficiale.
Il primo progetto di rottura rispetto alla visione industriale del Piano del 1931 è lo sviluppo residenziale a nuclei isolati, cosidetti a rosario, proposto da Gustavo Giovannoni nel 1935 e sviluppato progettualmente da un gruppo di cui facevano parte, in un primo tempo, G.Calza Bini, G. Cancellotti e G. Nicolosi e, successivamente, L. Piccinato, E. Fuselli e C. Valle.
L’ipotesi dell’espansione, a nuclei isolati, proposta da Gustavo Giovannoni, lungo il tracciato del Tevere, precede, di alcun anni, la scelta della localizzazione dell’EUR alle Tre Fontane (1938) ma, per quanto risulta dalla documentazione presa in esame[12], fu sempre avversata dalla Municipalità, la quale non riconobbe mai, fino allo sviluppo degli anni ’60 e ’70, alcun diritto edificatorio ai proprietari delle aree.
La “coda della cometa”, che potremmo considerare il più autorevole progetto moderno di sviluppo residenziale dell’area, non ebbe quindi, mai, i crismi dell’ufficialità e il favore della Municipalità, la quale, a giudicare dalla resistenza a concedere volumetrie, era rimasta favorevole agli indirizzi del Piano Regolatore.
Il progetto della ” coda della cometa” risponde, piuttosto, al di la dell’autorevolezza dei suoi autori, alle pressioni legittime della proprietà fondiaria, interessata allo sviluppo di queste aree ben irrorate dalle infrastrutture pubbliche; da forma urbana alle richieste di chi considerava un errore esiziale avere tentato, con il Piano del 1931, nel pieno della modernità, di circoscrivere la città di Roma, dentro ad un “anello”[13].
La visione borghese della città, caldeggiata dal Vaticano e sposata da Mussolini aveva trovato in Gustavo Giovannoni, un canale, autorevole, di espressione e la “coda della cometa”, con il suo corollario di “grapppoli” diventerà la matrice urbanistica fondamentale, per moltissimi altri programmi, che saranno sviluppati, a livello urbano, dal Piano di L. Piccinato del 1962.
Considerazioni sull’attualità. Tre questioni emergenti
Ci sono a mio avviso tre questioni emergenti- quando prendiamo in esame un quadrante complesso come quello “tra Roma e il mare”
La prima questione riguarda “la definizione dell’armatura infrastrutturale pubblica” di questa parte di città.
Il tema della definizione dell’armatura infrastrutturale pubblica di un territorio, come sappiano, può essere declinato a diverse scale. Cominciamo dalla grande scala.
Se osserviamo la città “tra Roma e il mare” alla grande scala (1:50.000) ci troviamo di fronte ad alcune”note” questioni, che ci pone quasi tutta l’espansione contemporanea delle nostre città (non solo a Roma): ci troviamo di fronte ad una grossa conurbazione, composta di parti storicamente definibili; tuttavia priva di gerarchia, di disegno urbano complessivo, di organizzazione del sistema degli spazi e delle attrezzature pubbliche, che chiamiamo sinteticamente infrastrutturazione pubblica dello spazio urbano.
Non bastano la ferrovia Roma-Ostia, la Cristoforo Colombo, l’Ostiense, la Via del Mare, la presenza di scuole, di strutture sanitarie, sportive, di centri di culto, ecc. a dire che esiste una visione pubblica di questo territorio, perchè l’irrigazione dello spazio, per usare una nota metafora lecorbuseriana, tanto nota quanto sbagliata, da parte delle infrastrutture della mobilità; la presenza di alcuni servizi (scolastici, sanitari, ecc), non ha minimamente generato alcun rapporto , di forma e di struttura, tra la componente insediativa e quella infrastrutturale.
Non c’è alcuna idea di città, tra Roma e il mare, non c’è alcuna visione pubblica del territorio e dello spazio urbano nonostante i tanti progetti che si sono accavallati lungo la cosidetta “coda della cometa”: da quello per la “Creazione del Centro Mondiale della comunicazione”del 1913 di Andersen, ai progetti di sviluppo industriale di Roma, che prevedevano la realizzazione di un porto industriale ad Ostia e di una testata urbana, votata alla chimica, nella zona Portuense- Ostiense, con idroscalo alla Magliana, fino ai progetti di sviluppo residenziale a nuclei isolati, cosidetti a rosario, proposta da Giovannoni nel 1935 (e sviluppata progettualmente da un gruppo di cui facevano parte, in un primo tempo, G.Calza Bini, G. Cancellotti e, Nicolosi e poi Piccinato Fuselli e Valle ), ipotesi che, come vedremo, per quanto risulta dalla documentazione che ho preso in esame (in particolare le perimetrazioni dei nuceli edilizi fuori PR elaborati tra il 1935 e il 1938 dal Governatorato di Roma) fu (peraltro) avversata dalla Municipalità; fino allo sviluppo degli anni 60 70-80-90 e all’attuale Piano del 2008 (cercheremo di capire cosa propone).
Con buona pace di tutti i progetti anche questa parte del territorio romano, così ricca di risorse è , in realtà, un groviglio mediocrissimo di Piani di lottizzazione, privati, pubblici, semipubblici, messi uno accanto all’altro, progettati ciascuno nel dettaglio, ma privi di una struttura comune; spesso separati da una costellazione di vuoti, per lo più in attesa di essere fabbricati, che sono sparsi qua e là, alla rinfusa. Quello che manca è proprio l’organizzazione cioè il disegno della struttura e della forma della città; della struttura e della forma della componente pubblica della città. In fondo i privati la loro parte, bene o male, la fanno.
E’ per questo che ritengo importante tornare a leggere i Piani Regolatori della tradizione storica e in particolare il Piano regolatore del 1931 (che è un piano molto innovativo). Analizzando i disegni dei PP del PRG, le loro (quasi infinite varianti), si capisce infatti l’importanza del disegno della città quale strumento di confronto flessibile con la proprietà fondiaria, prima che la burocratizzazione degli standard (1967) mettesse totalmente fuori uso la pratica e il concetto di progetto urbano.
Ritornando al Piano di Piacentini e di Giovannoni per Roma (Piano regolatore del 1931), è facile convincersi che il potere politico esprimeva una capacità persuasiva superiore rispetto a quello attuale, avendo forma dittatoriale, purtuttavia dobbiamo ammetter che le cessioni della proprietà fondiaria necessarie alla costruzione della città pubblica avvenivano sulla base di una assoluta consapevolezza di quanto si voleva realizzare, il che consentiva ad entrambi i contraenti di definire gli obiettivi in una cornice di maggiore fiducia gli uni negli altri.
Non è la forma dittatoriale, quindi,a mio avviso, il punto della questione, ma la centralità del progetto nel trovare il precario punto di equilibrio nell’acceso conflitto fra diversi portatori di interessi.
Ciò che si doveva realizzare all’epoca era chiaro sia all’Amministrazione Pubblica che ai privati: non erano necessari convenzioni farraginose e opache piuttosto disegni in grado di comunicare esattamente quanto si voleva ottenere. Era il progetto lo strumento di mediazione e di rappresentazione degli interessi concreti che si scontrano nella città, ed il progetto, contrariamente agli standard, ha una sua intrinseca flessibilità: si modifica a seconda degli input politici che riceve; non è mai territorialmente uniforme ed omogeneo (mentre le nostre città contemporanee si somigliano tutte terribilmente); ha una sua innegabile capacità comunicativa in grado di raccontare alla cittadinanza cosa si vuole fare; è una rappresentazione concretissima di una direzione politica, certamente molto più chiara della sola parola scritta o dei disegni ” a retini” di cui è ancora piena l’urbanistica comunale.
L’approvazione dei Piani Particolareggiati, consentiva, negli anni trenta, all’Amministrazione Pubblica di avere un controllo totale del disegno della città sulla base di una concretissima pattuizione con i privati. La messa a punto di questo rapporto avveniva attraverso l’uso delle varianti, un uso che è stato considerato nefasto dalla critica degli anni sessanta e che invece è un meccanismo chiaro di regolazione dei rapporti, fatta salva l’armatura pubblica della città.
Per tentare di risolvere il problema della mancanza di un armatura infrastrutturale pubblica convincente, nella componente contemporanea delle nostre città, credo che dobbiamo interrogarci sull’attuale modello di gestione della trasformazione urbana, un modello distorto, per il quale il ruolo pubblico (mi riferisco, in particolare, al livello comunale) è diventato quello del controllore, simile ad un interlocutore “sciocco“, nel rapporto pubblico-privato; senza idee e progetti, rispetto all’attore privato che è l’unico agente attivo nella trasformazione dello spazio urbano; il pubblico, in altre parole ha rinunciato a disegnare la città .
Non è’ sempre stato così nella storia moderna di Roma e bisogna ricordarlo. Nei 167 Piani Particolareggiati del Piano Regolatore del 1931, ad esempio, è sempre chiarissimo:
- il disegno delle strade, delle piazze, degli slarghi (cioè il disegno dello spazio aperto); a tutte le scale (1:50.000; 1:5.000; 1:2.000; 1;1.000) e in tutti i diversi ambiti della città;
- è chiarissimo il disegno del verde pubblico e di quello privato (a livello urbano e a livello locale);
- è chiarissima la mescolanza delle diverse tipologie edilizie (con le quali si cementano le comunità);
- -è chiaro il disegno e la localizzazione delle principali attrezzature di uso pubblico (ospedali, attrezzature sportive, centri di culto, ecc);
Tutto questo era possibile perchè l’amministrazione pubblica avocava a se oltre alla stesura del Piano Generale anche la stesura dei Piani Particolareggiati.
Se l’amministrazione pubblica non sarà in grado di esprimere nuovamente gli elementi irrinunciabili della sua politica urbana, attraverso disegni in scala adeguata (al 1:2000 al 1:1000), il rapporto pubblico- privato genererà sempre, a mio avviso, una città modestissima. Abbiamo bisogno in altre parole di tornare a disegnare la città come una architettura, come un organismo unitario e solo attraverso un esteso ricorso a progetti urbani di iniziativa pubblica (possiamo chiamarli così i vecchi PP) (penso che) potremo farlo.
La seconda questione che la lettura del territorio “tra Roma e il Mare” solleva, riguarda il rapporto tra il modello policentrico proposto dal Piano del 2008- e lo sviluppo di questo specifico territorio.
Se analizziamo lo sviluppo urbano tra Roma e il Mare, a scala minore, se percorriamo i suoi spazi, se leggiamo la sua storia, ci accorgiamo che non siamo di fronte ad una conurbazione generica, omogenea, priva di differenze, piuttosto siamo di fronte (come sempre avviene a Roma) ad una “struttura complessa”, composta di parti, una struttura non immediatamente decodificabile, che occorre “fare venire alla luce” attraverso una attenta analisi delle strutture morfologiche, insediative, orografiche, idrografiche ecc., presenti. (che ritengo sia tra gli obiettivi del convegno).
Anche limitandoci ai toponimi: abbiamo lungo la direttrice Ostiense : il Torrino, Vitinia, Giardino di Roma, Casal Bernocchi, Acilia, Dragona, Dragoncello, Stagni di Ostia, Ostia antica, lido di Ostia mentre sulla direttrice Colombo: Casal Palocco, l’Axa, l’ Infernetto, Castel fusano, ecc. E’ evidente che la conurbazione è fatta di parti ma la domanda sembra essere piuttosto questa: quale deve essere il suo sviluppo futuro rispetto al modello policentrico?
La conurbazione tra Roma e il mare va interpretata come una unica grande polarità urbana (in forza del suo peso demografico, della sua posizione strategica (come sembra suggerire anche l’unica centralità urbana peso, Acilia Madonetta? oppure deve configurarsi come un sistema complesso, doppio o forse addirittura molteplice?, assecondando quello che oggi vediamo?
Quale struttura e quale forma riconosciamo dentro questo corpo sfibrato?
L’attivazione di un progetto urbano di iniziativa pubblica, esteso all’intero ambito (e non alle singole parti), sarebbe grandemente utile a chiarire questi ed altri interrogativi e contribuirebbe in modo determinante a definire una visione “pubblica” di questo territorio, favorendo la realizzazione di una costruzione urbana più chiara, che possa mettere a sistema le risorse, ridurre l’attuale marginalità, insicurezza e dispersione, e sopratutto possa dare un contributo significativo alla costruzione policentrica della città metropolitana.
L’istituzione della città metropolitana penso che debba essere infatti l’occasione per una diversa formalizzazione territoriale di Roma fondata sul riconoscimento di nuove entità municipali all’interno del territorio-metropolitano.
Queste nuove entità che ho chiamato microcittà, costituiscono l’ossatura della articolazione policentrica dello spazio metropolitano di Roma, secondo una ipotesi che ho recentemente avanzato. Personalmente ritengo che la conurbazione tra Roma e il Mare costituisca una delle principali articolazioni della struttura policentrica di Roma sebbene non risulti a mio giudizio ancora del tutto chiara la sua vocazione funzionale in relazione alla architettura metropolitana.
La terza questione riguarda il superamento della strategia delle centralità ( su cui si fonda il PRG del 2008). Credo che siamo tutti d’accordo nel sostenere che la programmazione urbanistica attuale non fornisce alcuna indicazione circa l’evoluzione complessiva del sistema “coda della cometa”, non registra affatto i caratteri specifici della costruzione urbana attuale: non indica nessuna politica specifica (per esempio) per l’integrazione delle discontinuità agricole/ naturali interne agli insediamenti, per la loro valorizzazione come parti del sistema urbano; non contiene indicazioni circa i modi con cui contenere e riaggregare i processi insediativi tendenzialmente diffusivi e si limita a indicare obiettivi minimi di inserimento di servizi e di miglioramento del walfare urbano complessivo (le centralità urbane e locali sono questo). E’ evidente, come dicevamo all’inizio, che manca un modello di città a cui fare riferimento.
In effetti la coda della cometa, nella programmazione urbanistica del 2008 è priva di un progetto che affronti la questione della sua strutturazione complessiva, cioe’ della forma urbana che dovrà assumere, che non aderisce a nessun modello noto: non e’ una città continua (rispetto al nucleo centrale), non è una città lineare (rispetto alle direttrici Ostiense- colombo Grande Raccordo Anulare); non è configurata come insieme di microcittà satelliti; potrebbe assumere proprio il modello dell’arcipelago di microcittà a vocazione residenziale e ricettivo-turistica, se un progetto di relazioni ne garantisse lo sviluppo.
Bisogna ammettere che non sono stati sufficienti gli sforzi trentennali/quarantennali delle diverse Amministrazioni Capitoline per modificare le condizioni spaziali ed urbane delle strutture urbane tra Roma e il mare, che rimangono frammentarie e continueranno ad esserlo anche dopo le cure delle attuali programmazioni, perchè non sarà il reperimento degli standard urbanistici, una maggiore dotazione di servizi, l’inserimento di nuove funzioni (attraverso le centralità locali urbane e metropolitane) a modificare l’attuale condizione di svantaggio rispetto alla città consolidata: soltanto un disegno di sviluppo e un idea chiara di città potranno dare futuro all’attuale marginalità imposta dall’assenza di visione e di progetto.
Si tratta, quindi, a mio giudizio, di fissare il modello di città che si vuole realizzare, (che è cosa diversa dalla idea delle centralità) un modello che definisca gli obiettivi chiave dello sviluppo: le qualità fisiche, sociali economiche e spaziali che dovrà avere questo particolare territorio, nel tempo; le invarianti fondamentali che sole garantiranno nel tempo la qualità della forma urbana.
Chiudo ricordando che:
sia il Piano di Sanjust (1909) che quello di Piacentini e Giovannoni del 1931, nella piena modernità ritengono di potere dare una forma alla città di Roma e una struttura adeguata a quella forma.
La città la disegnano tutta, parte per parte e come insieme. Piacentini, nel 1931, attraverso167 Piani particolareggiati redatti in scala 1.2000
Al 1:2000 si vede tutto: si vedono le dimensioni delle strade , la loro articolazione in funzione della orografia e della componente insediativa, si vedono le tipologie, si vede la mixitè tipologica, si vede l’organizzazione del verde (da quello urbano a quello locale a quello di quartiere). Ci sono le piazze, le chiese, i mercati, le scuole tutta l’attrezzatura pubblica è perfettamente dimensionata e ha una forma e una struttura riconoscibile.
Gli edifici e gli spazi urbani non sono collocati a caso dentro un lotto, per riempire uno standard di legge,ma occupano un posto preciso nello spazio urbano nel punto esatto in cui il progetto complessivo le richiede. Tutti i 167 Piani Particolareggiati del PRG del 1931 sono di iniziativa pubblica. Se non saremo in gradi di fare questo temo che non riusciremo a ridare fiato e speranza alla nostra città.
Note
[1] La rivista “Architettura”, diretta da Marcello Piacentini da ampio risalto alla sinestesia tra progetto di architettura e progetto di città in tutti i suoi numeri. In particolare il fascicolo IV, aprile 1934, pubblica i concorsi per il piano regolatore di Busto Arsizio, di Monza, di Taranto. Sempre interessanti le molte osservazioni sull’argomento di M. Piacentini contenute nei diversi articoli della citata rivista. Vedi anche “Architettura” n. 7 del Luglio 1941 in particolare l’intervento di G. Bottai “nuova vita di “Architettura”. Nel 1934 la citata rivista, con sede a Roma, in Palazzo Mattei, è composta da: Plinio Marconi (redattore capo), Gaetano Minnucci e Mario Paniconi (redattori). Nel 1941 il consiglio direttivi è composto da Enrico Del Debbio, Marcello Piacentini, Giovanni Muzio e Aldo Garzanti (editore), la Commissione redazionale da: Giovanni Muzio, Giovanni Ponti, Piero Portaluppi, Giovanni Michelucci; Luigi Vietti. Redattore capo sempre Plinio Marconi.
[3] Il Piano regolatore di Roma del 1873 prevede l’edificazione del quartiere di Testaccio; la vocazione di quartiere industriale si precisa nelle previsioni del Piano del 1883, che permette l’insediamento delle prime industrie: materiali edili Ferrebeton, pastificio Pantanella, società Anglo-romana Gas, Cristallerie e vetrerie riunite, cartiera Pitigliani, Magazzino dei selci, Mattatoio e Conce. Tra tutti gli insediamenti industriali spiccava il nuovo mattatoio, in cui lavorano circa duemila persone, che contribuisce all’insediamento di diverse attività legate all’impiego degli scarti della lavorazione delle carni: nell’area suburbana adiacente le mura Aureliane, nei pressi della Piramide di Caio Cestio, si sviluppa un quartiere operaio strettamente legato alle attività di concia e lavorazione del pellame. Negli stessi anni (1899), al di là del Tevere, nei pressi dell’attuale Via Pacinotti, sorgono alcune industrie chimiche, fra le quali quella della Società colla e concimi che si avvale, per la produzione, degli scarti provenienti dal mattatoio.
[4]Mira Lanza, proprietà della famiglia Piaggio.
[5] Popolazione prevista dal Piano Regolatore del 1909: 516.000 abitanti;popolazione prevista dal Piano Regolatore del 1931: 1 milione di abitanti.
[6] Il Piano del 1909 non include il Porto sulla Magliana ma destina la zona di Testaccio a centro di smistamento merci (vedi ferrovie) e alla costruzione del Mattatoio.
[7] La linea Roma Ostia fu inaugurata il 10 Agosto 1924
[8] Si fa riferimento all’idroscalo della Magliana, progettato nel 1933, lungo l’asta del Tevere, all’altezza dell’attuale Ponte di Mezzocammino, che avrebbe dovuto diventare un vero e proprio aereoporto dell’Urbe .
[9] Quando viene approvato il Piano regolatore del 1931 buona parte delle attuali ferrovie in ingresso a Roma erano già state realizzate. La prima linea ferroviaria romana è la Roma-Frascati con prolungamento facoltativo fino alla frontiera Napolitana, che fu messa in servizio il 7 Luglio 1856. E’ attiva dal 1873 la Roma-Ancona e la Roma-Civitavecchia e tra il 1873 e il 1889 vengono potenziate la Roma Napoli e la Roma Sulmona. Le diverse linee ferroviarie non erano unite tra loro. Il piano del 1931 definisce, per la prima volta l’anello ferroviario romano, attraverso una nuova linea ad arco di cerchio che collega la stazione di Valle dell’Inferno con la stazione Nomentana. Il Piano per la realizzazione dell’anello è promosso dalle Ferrovie ma Piacentini lo include nel Piano regolatore e ne potenzia sensibilmente la portata urbana trasformando la strada ferrata in un elemento fondamentale a servizio della città. Su questo tema vedi: L’evoluzione dei tracciati ferroviari romani e l’importanza del sistema del trasporto pubblico nella definizione della forma urbis moderna di Roma dal 1868 al 1949, articolo del proponente.
[10] In entrambi i casi le linee ferroviarie collegano Roma con città portuali: Civitavecchia lato Tirreno e Ancona, lato Adriatico. L’area industriale romana, quindi, nasceva in quello specifico luogo non soltanto in rapporto alla vicinanza del mare, al quale era collegata attraverso l’asta fluiviale del Tevere ma sopratutto per la presenza delle linee ferroviarie che la mettevano in comunicazione con i porti di Ancona e Civitavecchia.
[11] Creazione del “Centro Mondiale della comunicazione”del 1913 di Andersen.
[12] In particolare le perimetrazioni dei nuceli edilizi fuori P.R. elaborati tra il 1935 e il 1938 dal Governatorato di Roma, di cui ho a disposizione alcune tavole al 1:50.000
[13] Proprio nel trienno 1931-1935 la Municipalità è infatti impegnata a contrastare le pretese dei proprietari fondiari, convinti della legittimità di potere costruire fuori Piano regolatore. Vennero redatte una serie di cartografie che indicano con precisione le richieste ufficiali della proprietà fondiaria localizzando le aree esterne al PR nelle quali i proprietari hanno fatto richiesta di Licenza Edilizia o hanno cominciato a costruire anche in sua assenza.
Didascalie
Copertina: Policentrismo Piacentiniano: Roma e la “città bassa” dei fiumi e delle forre, Immagine dell’autore.
Fig. 1: L’articolazione infrastrutturale del Piano Regolatore del 1931, Immagine dell’autore.
Fig. 2: Il sistema delle strade anulari del Piano Regolatore del 1931, Immagine dell’autore.