Borgata romana = apertura
Assegnista di ricerca, Università degli Studi Roma Tre
La lettura del libro “Borgate romane. Storia e forma urbana”, a cura di Milena Farina e Luciano Villani, mi pare suggerisca, o sottintenda, con una certa frequenza, il termine apertura, nelle diverse accezioni che gli si possono attribuire. Una frequenza che sollecita nel lettore approfondimenti sul caso delle borgate e collegamenti e rimandi a questioni altre. Il seguente contributo cerca di restituire, in modo sintetico, quei collegamenti e rimandi sollecitati, a volte anche involontariamente, dagli autori e centrati sulle accezioni del termine apertura, per esempio: dibattito rimasto in sospeso e necessariamente da riprendere in mano, prospettiva di ampio respiro, spazio fisicamente continuo e tangibile o progetto non vincolato a rigidi schemi.
Riconoscendo qualcosa di dispregiativo nel termine, Italo Insolera, su Urbanistica 28-29, definisce la borgata come un pezzo di città “che non ha la completezza e l’organizzazione per chiamarsi ‘quartiere’, oppure un agglomerato rurale chiuso da un sistema economico feudalistico in una dimensione che ne vieta lo sviluppo a organismo completo. Borgata è una sottospecie di borgo: un pezzo di città in mezzo alla campagna, che non è realmente né l’una né l’altra cosa, e in cui l’unica attività sociale possibile è la speranza; speranza di andarsene o la speranza che la città dei ricchi cresca e arrivi fin lì” (Insolera 1959, p.45). Negli anni ’50, a più di trent’anni dalla loro realizzazione, le borgate richiamavano ancora giudizi negativi da parte degli intellettuali e studiosi di Roma dell’epoca. Ed è proprio rispetto a queste interpretazioni, prodotte soprattutto negli anni ’50 e ’60 e relative alle vicende economiche e urbanistiche delle borgate, che Villani propone un’operazione di apertura. L’intento è quello di spingersi oltre quelle interpretazioni che hanno condizionato non solo le ricerche e i lavori successivi ma anche l’opinione politica e pubblica sulle borgate, nonostante si muovessero su un terreno di studio ancora incolto. In particolare, per Villani, gli sventramenti del centro storico, utili alla monumentalizzazione della capitale, diventano nel secondo dopoguerra l’argomento polemico per condannare le soluzioni adottate dal fascismo per risolvere il problema dell’accesso alla casa. Altre questioni, come “le procedure effettivamente eseguite nella sistemazione degli sfrattati e i fattori che alimentarono il popolamento delle borgate, o ancora i criteri in base ai quali si assegnavano gli alloggi pubblici e le logiche politico-clientelari cui erano sottesi, finirono con l’essere sbrigativamente accantonati, rimanendo a lungo inesplorati e avvolti nell’indeterminatezza” (Villani 2017, p.10). Affrontare questioni rimaste aperte, in sospeso, sembra necessario, soprattutto quando si parla di edilizia e architettura del ventennio che rappresentano un nervo scoperto in Italia capace di innescare ancora oggi, 2017, accesi dibattiti[1].
Le questioni esposte nel libro aiutano a inserire le borgate ufficiali, progetto originale del Governatore Francesco Boncompagni Ludovisi, in una prospettiva più ampia, più aperta, ovvero entro le modalità di crescita ed espansione della città di Roma e il tema dell’accesso alla casa, fra loro indiscutibilmente legati. Come suggerisce anche Insolera, almeno fino alla fine degli anni ’50 (anni in cui scriveva l’autore ma questo sarà vero anche dopo) l’espansione della città è avvenuta a macchia d’olio o per interventi puntuali lontani dal centro (Insolera 1959). La localizzazione suburbana delle borgate ufficiali, utili a dare un’abitazione a senzatetto o sfollati delle baracche demolite, è dovuta principalmente al basso valore dei terreni fuori dal centro o alla presenza di aree di proprietà pubblica, più che a una visione strategica di sviluppo della città. Le aree scelte furono rapidamente urbanizzate disvelando nell’immediato “la natura provvisoria dei progetti e la logica segregazionista da cui discendevano” (Villani 2017, p.17): alcuni terreni risultavano insalubri (per esempio Tor Marancia e Gordiani, demolite alla fine del secolo scorso) altri molto distanti dal resto dell’urbanizzato consolidato rendendo difficili le connessioni all’infrastrutturazione primaria esistente (fra tutte Primavalle). Una modalità di intervento, quella dell’espulsione dal centro, che però “ebbe l’effetto di valorizzare i suoli intorno, inseriti nei circuiti speculativi a vantaggio dei proprietari” (Villani 2017, p.14). Le borgate come esploratrici urbane? Un sostegno ad una crescita della città priva di precise indicazioni di sviluppo? L’assunzione di un modello diverso di espansione era possibile. Negli stessi anni, per esempio, Ernst May, assessore all’edilizia di Francoforte sul Meno dal 1925 al 1930, proponeva la realizzazione di quartieri di edilizia popolare, Siedlungen, localizzati secondo un preciso modello di espansione della città. “Nel corso dei decenni futuri dovremo limitarci a promuovere uno sviluppo sistematico che tenga conto dei sobborghi come elementi satellite della città. Questi verranno forniti di tutte quelle attrezzature di cui possono aver bisogno gli abitanti nella loro vita quotidiana (…) Si svilupperanno quindi dei collegamenti opportuni con linee di autobus, tram e ferrovie tra questi centri satelliti e il centro urbano (…) Le aree libere tra le singole zone di ampliamento saranno destinate a zone di lavoro o di tempo libero” (May 2007a, p.196).
Le Siedlungen tedesche vengono prese a riferimento dai progettisti delle borgate di “seconda generazione” (realizzate cioè dopo il 1935) che allo stesso tempo, secondo Milena Farina, le mettono in discussione. La modernità a Roma è contaminata dalle tradizioni locali che deviano standardizzazione e tipicizzazione igienista verso canoni compositivi più tradizionali e consolidati nella “cultura urbana italiana e promossi a partire dagli anni Dieci da figure come Gustavo Giovannoni, che invita a riscoprire e studiare i caratteri delle città medievali, rinascimentali e barocche già esaltati da Camillo Sitte e Joseph Stübben” (Farina 2017, p.94). Quindi gli spazi della piazza, della corte e della strada non vengono completamente abbandonati ma ricomposti utilizzando nuovi codici, nuovi materiali urbani. In particolare sembra che la strada mantenga un ruolo decisivo nella costruzione dell’impianto urbano delle borgate e delle sequenze spaziali. La “strada corridoio” sopravvive alla serialità razionalista. Ma non sembra essere un primato italiano. Anche a Francoforte sul Meno, i quartieri di edilizia popolare guardano alla tradizione. Giorgio Grassi sostiene che “il confronto concreto che si stabilisce nella nuova Francoforte con la tradizione della città europea passa attraverso le condizioni architettoniche caratteristiche di Francoforte” (Grassi 2007, p.26). Quindi il riferimento in questi nuovi quartieri rimane la tradizione della città europea, come fatto complesso e inimitabile ma riducibile agli elementi che la costituiscono in dialogo costante con il territorio, in particolare la campagna, nella formazione e sviluppo della cultura urbana.
Se le premesse potevano essere anche simili (dare una casa agli indigenti) gli obiettivi da raggiungere così come le modalità d’intervento, ma soprattutto le condizioni contestuali, naturalmente cambiano. Nel caso delle Siedlungen l’intento, almeno sulla carta, era di fornire a tutti una “razione minima” di alloggio rispettosa di nuovi standard igienico-sanitari, frutto di studi teorici e ricerche sul campo. Nel caso delle borgate di “prima generazione” invece il problema dei baraccamenti[2] era risolto dall’amministrazione capitolina con soluzioni anche radicali (in alcuni casi tipologie abitative e dimensioni degli alloggi vennero calate dall’alto). Non vi è l’applicazione diretta di un ragionamento disciplinare sul caso. A Francoforte la ricerca “approfondita dal punto di vista dei fondamenti sociologici e biologici dell’edilizia residenziale avrà come conseguenza che per il futuro non si metterà più a disposizione dell’uomo soltanto un alloggio qualsiasi, ma si potrà stabilire un minimo vitale per determinati gruppi di persone, suddivisi in base al loro numero e alle loro capacità economiche e si studierà la soluzione migliore al fine di procurare a ciascuno la sua ‘razione’ di alloggio” (May 2007b, p.170). A Roma “oggi sappiamo non solo che Mussolini diede il suo benestare all’irrazionale principio dell’ambiente unico, ma che fu proprio il duce con il suo maniacale interventismo a stabilire la metratura esatta delle famigerate baracche ufficiali di Gordiani e Tor Marancia” (Villani 2017, p.16).
Obiettivi, metodi e condizioni contestuali diversi ma è evidente che nelle Siedlungen e nelle Borgate di “seconda generazione” la matrice compositiva è centrata sullo spazio aperto. Il nuovo senso dello spazio aperto per la cultura moderna, ribaltato rispetto a quello precedente, ed esplicitato nella carta d’Atene, prodotto del IV congresso CIAM, conclusione ideale di una riflessione sullo spazio abitabile avviato nella stessa Francoforte nel ’29, al II congresso dedicato all’alloggio minimo. Dalla carta, si evincono i nuovi paradigmi: separazione e allontanamento tra cose, fra materiali urbani, fra funzioni, fra tipi di traffico, tra tipi di strade. Lo spazio aperto collettivo quindi è l’elemento che separa e allontana. È l’oggetto del ribaltamento di senso: da trama e connettivo dei tessuti storici, a materiale che propone distanze a scale diverse. Il tema del distacco fa parte di un processo di disgregazione/dissoluzione dell’isolato ottocentesco che passa attraverso alcuni ragionamenti di carattere funzionale. Gli schemi e i ragionamenti di May e Gropius, ripresi anche da Milena Farina, mettono in evidenza gli sforzi per trovare risposta a determinate domande rispetto la razione minima di beni fondamentali pro-capite: quale altezza? Quale principio insediativo? Ma lo spazio aperto non deve essere interpretato unicamente come elemento di separazione ma piuttosto come condizione necessaria per rendere uno spazio abitabile. Lo spazio aperto diventa quindi un legante. Prolungamento diretto e indiretto dell’alloggio, spazio di uso quotidiano e collettivo che circonda l’abitazione e la qualifica. Il particolare progetto sperimentato nelle borgate, che prevede la residenza al piano terra, ha permesso di stabilire “un rapporto naturale e informale con gli spazi aperti, rafforzato dalla frequente collocazione di accessi privati a diretto contatto con l’esterno. Questa relazione così particolare con gli spazi comuni, sentiti dagli abitanti come vere e proprie estensioni dell’abitazione, si può considerare una peculiarità delle borgate visto che l’introduzione del pilotis o l’inserimento dei parcheggi al piede dell’edificio determina negli interventi realizzati a Roma negli anni successivi il netto distacco degli spazi abitativi dal suolo” (Farina 2017, p.134).
Dopo ottant’anni, le borgate, di seconda generazione e sopravvissute alle demolizioni, vengono descritte come luoghi “dall’inattesa qualità urbana (…) a dispetto delle sfavorevoli premesse e delle oggettive condizioni di degrado che ancora oggi affliggono alcuni edifici e molti spazi aperti” (Farina 2017, p.91). A dispetto anche dei giudizi negativi espressi in passato. Oggi i quartieri privati hanno raggiunto e superato le borgate; le popolazioni residenti di allora, obbligate all’esilio fuori dalla città, si sono confuse e mixate con altre; il tempo ha ricucito ferite, il silenzio ha cancellato parte della memoria negativa qui sedimentata e permette di guardare e vivere i quartieri in modo differente. “Le borgate si presentano oggi come un palinsesto dove nuove tracce si sono progressivamente sovrapposte alle precedenti, formando un quadro denso e complesso che appare disponibile a ulteriori contaminazioni, a partire dalle generose risorse spaziali e sociali presenti in questi luoghi” (Farina 2017, p.134). Il progetto aperto, di cui parla Milena Farina nel libro, trova pieno compimento, non perché chiude il suo ciclo ma perché oggi sembra essere entrato a pieno regime. Dopo un tempo lungo, l’attesa è finita, è arrivata la città. E questo è di buon auspicio perché aiuta a guardare in modo diverso a molta della produzione pubblica post bellica sedimentata nel periurbano romano, per esempio i piani di zona (le cui storie sono diverse come i contesti che li hanno generati) i cui spazi necessitano ancora di completa appropriazione da parte degli abitanti, di essere digeriti, e dove la memoria collettiva deve essere lavata da sfavorevoli premesse, percorsi incerti e giudizi negativi.
Titolo: Borgate romane. Storia e forma urbana
Autore: Milena Farina e Luciano Villani
Editore: Libria
Pagine: 208
Prezzo: 20 €
Anno di pubblicazione: 2017
Note
[1] Si veda in tal senso l’articolo di Manuel Orazi su Rivista Studio disponibile on line: http://www.rivistastudio.com/standard/architettura-fascista-italia-polemiche/
[2] “Le direttive per liberare la città dall’onta delle baracche emanavano dall’alto ed in quanto tali incombevano senza possibilità di appello” (Villani 2017, p.13).
Bibliografia
Di Biagi P. 2005, “I CIAM verso Atene: spazio abitabile e città funzionale”, in Planum. [on-li-ne]. Disponibile su: <www.planum.net/download/dibiagi-ciam-art-ita-pdf>
Di Biagi P., a cura di, 1998, La carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, Officina, Roma.
Farina M. 2017, “Le ragioni di un riscatto. Principi compositivi, caratteri tipologici e temi figurativi nelle borgate di seconda generazione” in Farina M. & Villani L. (a cura di) Borgate romane. Storia e forma urbana, Libria, Foggia, pp. 91-139.
Grassi G., a cura di, 2007, Das neue Frankfurt 1926‐1931, Edizioni Dedalo, Bari, ed.or. 1975.
Insolera I. 1959, “Le borgate”, in Urbanistica n.28-29, pp.45-60.
May E. 2007a, “Cinque anni di attività edilizia residenziale a Francoforte sul Meno”, in Grassi G. (a cura di), Das neue Frankfurt 1926‐1931, Edizioni Dedalo, Bari, pp. 189- 209, ed.or. 1975.
May E. 2007b, “L’alloggio minimo”, in Grassi G. (a cura di), Das neue Frankfurt 1926‐1931, Edizioni Dedalo, Bari, pp. 169- 176, ed.or. 1975.
Villani L. 2017, “La periferia stratificata. Borgate romane dal fascismo al secondo dopoguerra” in Farina M. & Villani L. (a cura di) Borgate romane. Storia e forma urbana, Libria, Foggia, pp. 9-90.