ISSN 1973-9702

copertina

La città nel paese delle meraviglie

di Martina Pietropaoli

Dottoranda in “Paesaggi della città contemporanea: politiche, tecniche e studi visuali”, Dipartimento di architettura, Roma Tre

Il 4 novembre finisce la biennale itinerante di arte contemporanea Manifesta 12, iniziata il 16 giugno con l’ambizione di disseminare nei luoghi di Palermo un presidio fisso (costellazione di palazzi storici) e un caleidoscopico sciame di eventi, dalla traiettoria di difficile lettura. La corolla meteorica o meteoropatica d’iperattività urbana viene portata a testimonianza della vitalità provocata dall’innesto dell’iniziativa nella dormiente e seducente Città (con la maiuscola, per i suoi abitanti). Complici la fioritura culturale degli ultimi anni, la desertificazione e le migrazioni che avanzano dal nord-Africa, l’appeal mediterraneo sembra sublimare in un matrimonio perfetto le due anime di Manifesta: quella progressista continentale (affascinata dalle selvatiche forme dei sud del mondo) e quella dei contesti urbani che, ospitando le iniziative internazionali, oppongono una sufficiente resistenza.

I giornalisti hanno facilmente disprezzato il “neocolonialismo estetico” (Faletra 2018, Artribune) o celebrato l’indissolubilità tra la forza nederlandese e l’inerzia della città arabo-normanna. Si vuole qui riflettere non tanto sulla capacità delle esposizioni internazionali di innescare reazioni locali di rivendicazione comunitaria (Rossi, Vanolo 2010) quanto su alcuni ruoli che tali eventi attribuiscono alle città europee, denunciando un’implicita latenza del legame profondo tra forma della città e forme di una civiltà, nello spazio e nel tempo.

Innanzitutto Palermo è città europea e porto ma è anche (e ha la forma di) una capitale[1]. Sulla domanda “Palermo accoglie Manifesta” o “Manifesta è Palermo” hanno ragionato in molti. Ci interessa invece una questione preposizionale (Virno 2001): è meglio dire Manifesta è ospitata ‘da’ Palermo (complemento di agente) o Manifesta è ospitata ‘a’ Palermo (complemento di stato in luogo)? Nel primo caso, con la preposizione semplice ‘da’, Palermo è un soggetto ascrivibile ad un’unica volontà. Nel secondo caso Palermo sarebbe un luogo che nella sua interezza accoglie diversi soggetti in grado di sapere come Manifesta possa essere ospitata. Politica è la premessa preposizionale dell’ospitalità ma c’è a valle una questione etica. Il verbo ospitare vibra della doppia accezione etimologica di hostes come nemico e ospite (Cacciari 2009). Se quindi l’ambiguità preposizionale pone un problema di anime plurali, l’ambiguità verbale pone un problema d’intenzioni. Nell’accanimento attorno a questa urbanità forzata che si è voluta rintracciare nel capoluogo siciliano, possiamo leggere una forte risonanza del tema della giusta forma che una civiltà possa ritrovare mediando tra le sue anime. Una postura, più che una forma precisa, che metta insieme le diverse traiettorie dell’eredità entro comuni visioni del presente.

“Il giardino planetario. Coltivare la co-esistenza”. Il titolo della mostra introduce la preposizione con, che nobilita Manifesta 12 attraverso Palermo. Prima della nozione di società richiama quella di co-munità. Il munus (Esposito 1998) è ridotto, anche dal titolo, ad un munus ontologico, lasciando disincarnato il munus etico. Le situazioni urbane, ricreate a mo’ di presepe, usano l’artigianato per riprodurre pezzi di comunità locale in progetti sostenibili a presidio di quartieri “difficili”. Fotografano nomadismi comunitari in forma stabile ricomponendola a posteriori: l’etica è esito posticcio, esempio di infra (Arendt 1958) valido ad ogni latitudine, in sé gratificante ma anche apolitico poiché la dimensione cosmopolitica e universalistica tradisce la sfida preposizionale locale.

Affermando che Palermo sia un “giardino planetario” sul quale esercitare la capacità di coltivare la co-esistenza, si può fare nuovamente Mondo partendo dalla creazione (Nancy 2003) ignorando che il concetto stesso di giardinaggio sia legato, per dirla con Gilles Clément (mentore di Manifesta 12), al divenire delle relazioni mutue. Mentre cammino in Città mi domando perché Clément non abbia riempito le strade dei suoi punti di osservazione, sezionando idealmente lo spazio per permetterne una frequentazione attenta. Queste sezioni spazio-temporali sono i contenitori delle mostre? La cifra estetica del recupero provvisorio di tali bellezze, quasi tutti complessi storici sottoutilizzati o abbandonati, concettualmente resta affascinante ma le suggestioni delle opere d’arte non bastano: la montagna di sale, il Santo Benedetto “moro”, i temi dell’inquinamento e dell’ecologia declinati in maniera provocatoria. Questo ‘capriccio della contaminazione’ è forse l’unico capriccio che i palermitani non praticano perché per loro non è eccezione ma sostanza ordinaria del vivere.

Palermo resta un pianeta mutuamente connesso ma senza giardiniere. I soldi ben spesi, il decoro, i numeri sul turismo, i numeri sulla crescita, il clima “barcellonese” che fa gridare al “modello”, l’immondizia: ricondurre il problema a “come dare forma alla competitività di una città non competitiva” annega ogni ambizione iniziale. La domanda frequentissima ‘cosa resterà della mostra?’ denota un doppio canale di aspettative: continuare a credere che Palermo avesse bisogno della mostra; continuare ad affermare che il genius loci di Palermo avesse molto a che fare con il tema  di Manifesta 12. Torniamo allo specchio dell’ospitalità e tramutiamo il ‘cosa resterà della mostra’ in ‘che cosa mi mostra Manifesta di Palermo’.

S’ignora un prezioso particolare. Il Genio di Palermo è diverso dal genius loci. «Palermo conca d’oro divora i suoi e nutre gli stranieri». La pianura sulla quale è adagiata la Città e l’iconografia del vecchio che allatta il serpente non lasciano dubbi sulla vocazione di questo insediamento. Il fiume Kemonia è nascosto sotto terra e i salotti di Palermo? Nessuno ne parla. I palazzi celebrati come scheletri vuoti sono restituiti a linguaggi dell’assenza, della denuncia. Estetiche deboli e faziose in confronto al voluttuoso movimento della finzione che dalla decorazione dei palazzi s’incarna nel vivere quotidiano. Inventario di meraviglie, urbanità, aspettative della socializzazione, della comunicazione e della “coltivazione”: il cultivé dell’Europa romantica dov’è? Penso ai salotti di Madame de Staël che hanno fondato l’Europa nella ricerca di un linguaggio letterario comune. Salendo sullo scalone di Juvarra a palazzo Gangi (palermitano ma fuori da ogni collateralismo della mostra) vengono in mente William Morris e lacerti d’intuizioni di modernità. Può la paura di un discorso troppo elitario tradire la ricerca dell’unità tra architettura e spazio sociale?

La retorica della ‘Terra’ contenuta nelle opere in mostra s’impregna dei temi dell’empatia e del sentire comune, a servizio di un’idea di Europa che passa per due binari: 1) complottismo (ancora preoccupazione per la colonizzazione americana), 2) spirito glocal, retaggi di Porto Alegre senza la disperazione dei movimenti ambientalisti e anti G8. Come si fa non disperarsi a Palermo?

“È come se, a conti fatti, il mondo fosse oggi percorso e scosso da una pulsione di morte che presto non avrà altro da distruggere che il mondo stesso” (Nancy p. 8)

La riflessione su uomo, ecologia, alterità ha ignorato la creazione integrale di uno spazio umano che è, a Palermo, anche naturale perché si relaziona con il sublime, il conflitto, il possesso, il piacere. Come mettere insieme decadenza e modernità? I siciliani vivono da sempre con un piede in un mondo e uno in un altro, incarnano la collisione tra nord e sud: è in loro che posso leggere le tonalità emotive di un modo di intuire la trasformazione? “Si credono dèi”, insegna il Gattopardo, e alla fine si estingueranno. Tra vita e morte (come la rosa), tra infinito e dettaglio. Questa coesistenza interna passa per il conflitto della socialità e per la mediazione continua tra mondi (il mare, la casa, il palazzo, la campagna, la città, il regno) generando una realtà urbana che si vive in scatole che si dilatano e si contraggono a seconda degli usi, di quanto ci si sottrae o ci si approssima (scottandosi). Un ‘contestuale’ che supera la nozione di contesto, troppo stretta per le sfide di domani. Palermo è una cipolla e a forza di sfogliarla rischi di non trovarti niente tra le mani (Alajmo 2005). La natura è relazione improvvisa, contatto con il semidio che è contenuto nell’uomo, Pan (Hillmann 1977), che porta ad una pulsione di morte. Il porto, il Mediterraneo, il commercio, la voce dentro l’uomo attraverso il mare. Vedere la Natura nella Città è un’arte ambiziosa che i palermitani hanno da sempre praticato, coscienza che quando si ha a che fare con l’urbano la figura che permette orizzonti di senso è l’eterotopia. Manifesta sceglie l’utopia e la distopia perdendo il serpente che uccide una parte del sé quando si specchia nell’altro.

Pan-ormus, mi dico, non come “porto di tutti” o “tutto un porto” ma come incubo della distruzione contenuta in ogni costruzione? Dice bene Manifesta: l’estraneo è sia la natura sia lo straniero. Con una breve passeggiata nella Città si ricompone una figura geografica nitida: le città-stato ioniche da cui nasce Europa come qualcosa di migrante, fondata sulla doppia radice di ospitalità. A questa idea di confederazione diversamente competitiva potrebbe aspirare la nuova élite europea che, nascondendosi dietro al pauperismo dei mezzi e alla perifericità dei linguaggi, afferma la propria presenza senza un progetto che non sia l’ennesima celebrazione della decadenza dello stato-nazione. La meraviglia reciproca delle specificità urbane sarebbe un patto più ambizioso del tentativo di trasformare le città in un Risiko-lunapark che tradisce la scala urbana, collocandosi su un’interscalarità del senso, tuttavia, ancora sovrapponibile ai Paesi che contengono geograficamente quelle città.

 

Note

[1]Dapprima come capitale dell’Emirato di Sicilia, con la conquista dei saraceni (831) e poi del Regno di Sicilia, fondato nel 1130; Palermo fu capitale del nuovo Regno delle Due Sicilie tra il 1816 ed il 1817, sostituita poi da Napoli.

 

Bibliografia

Alajmo R. 2005, Palermo è una cipolla, Editori Laterza, Bari.

Arendt H. 1958, The Human Condition, University of Chicago Press Chicago; trad.it. Finzi S. 1997 Vita activa. La condizione umana, Einaudi, Torino.
Cacciari M. 2009, La città, Pazzini, Rimini.

Clément G. (avec Éveno C.) 1997, Le Jardin planétaire, L’Aube, Château-Vallon; trad. it. Denis G. 2008, Il giardiniere planetario, 22 Publishing, Milano.

Faletra M. 19 ottobre 2018 [consultato 23 dicembre 2018], Neocolonialismo estetico. Manifesta secondo Marcello Faletra, Artribune, https://www.artribune.com/arti-visive/2018/10/manifesta-palermo-editoriale-marcello-faletra/

Hillman J. 1972, Pan and the Nightmare,  trad. it. Giuliani A. 1977, Saggio su Pan, Adelphi, Milano.

Fasano P. 2004, L’Europa romantica, Le Monnier, Firenze.

Nancy J-L. 2002, La création du monde ou la mondialisation, Galilée, Paris; trad. it. Tarizzo D. 2003, La creazione del mondo o la mondializzazione, Einaudi, Torino.

Rossi U. Vanolo A. 2010, Geografia politica urbana, Editori Laterza, Bari.

Rovida M.A. 1998, Città e architettura tra islam e cristianesimo nell’Europa mediterranea: Palermo, Toledo, Cordova e Siviglia nel Medioevo, ETS, Pisa.

Virno P. 2001, Grammatica della moltitudine. Per un’analisi delle forme di vita contemporanee, DeriveApprodi, Roma.

 

Immagini

copertina: Piazza Bologni, installazione T. Saraceno in “Foresta Urbana”, Palermo Capitale Italiana della Cultura 2018, Martina Pietropaoli.

fig. 1: Manifesta 12, Palazzo Ajutamicristo , collettiva sul potere dei network transnazionali, Martina Pietropaoli.

fig. 2: Palazzo abbandonato, Palermo, Martina Pietropaoli.

fig. 3: Piazza Pretoria, Palermo, Martina Pietropaoli.

fig. 4: San Cataldo, Palermo, Martina Pietropaoli.

fig. 5: Vista di Palermo da Palazzo Ajutamicristo, Martina Pietropaoli.