ISSN 1973-9702

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Sulla necessità di osservare le aree abbandonate quali riserve di naturalità | The need to observe abandoned areas as natural reserves

di Nicola Vazzoler

Architetto libero professionista

Scriveva Bernardo Secchi (2008): «Ben consapevoli dell’impossibilità di costruire una copia esauriente del reale, le ripetute descrizioni della città e del territorio di fine secolo fanno emergere il frammento, lo specifico, il locale, la differenza irriducibile mostrando che lo spazio della dispersione non è omogeneo e isotropo, quanto costituito da costellazioni di materiali frammentari tra i quali diviene importante stabilire nuove relazioni» (ivi; p.25). La città postmoderna è un pastiche di materiali urbani e su di essa si sovrappongo sguardi e desideri diversi, tutti condivisibili. Secondo David Harvey (2010) la cultura postmoderna vede la città come “necessariamente frammentata”, un “palinsesto” di forme del passato e del presente giustapposte l’una all’altra, un collage di usi correnti, molti dei quali anche effimeri e che sembrano demotivarne il controllo (da parte di discipline che ne regolano l’uso) se non per piccoli frammenti. Fra questi i luoghi dell’abbandono protagonisti di processi di naturalizzazione che il presente articolo tenta di leggere e darne senso entro una cornice ambientale ed ecologica.

Rovine, rifiuti, scarti
Nel linguaggio comune, così come in quello disciplinare (architettonico e urbanistico), gli spazi abbandonati dalla pratica umana vengono ad assumere definizioni differenti. Qui mi soffermerò brevemente su tre termini che tentano di definire, anche soggettivamente, questi spazi in relazione soprattutto al contesto storico e sociale e, forse sopratutto, in relazione alla postura critica con cui l’osservatore si pone rispetto a questi spazi legati alla loro essenza, al loro statuto: “rovina”, “rifiuto” e “scarto” sono termini che possono essere utilizzati autonomamente ma che possono, altresì, essere fortemente correlati e dipendenti fra loro.

Nel primo caso si rimanda ad una dimensione culturale per la quale gli spazi abbandonati divengono testimonianza di “qualcosa”. Entro questa dimensione, il termine di “rovina” può essere associato all’archeologia in quanto lo spazio abbandonato diventa testimonianza fisica, traccia della cultura di una determinata comunità, entrando di conseguenza all’interno di un patrimonio storico materiale. «L’espressione [patrimonio n.d.a.] designa un fondo destinato al godimento d’una comunità allargata di dimensione planetaria attraverso l’accumulazione continua d’una molteplicità di oggetti riuniti dalla comune appartenenza al passato […]» (Choay, 1995; p.9). In tal senso, in quanto testimonianza, patrimonio universale o locale, lo spazio abbandonato necessita di conservazione o valorizzazione funzionale e strutturale al fine di renderlo praticabile e leggibile per re-integrarlo all’interno del vissuto quotidiano. Si pensi all’archeologia industriale disciplina di studio che raccoglie al suo interno più ambiti disciplinari (ovvero storico, economico, tecnologico, sociale, architettonico, ecc.) e che si interessa ai processi di industrializzazione al fine di approfondire la conoscenza della storia del passato, in particolare quella relativa ai processi produttivi divenuti ormai obsoleti.

Nel secondo caso non si può far che riferimento a Rem Koolhaas (2006) secondo il quale «[…] il prodotto costruito della modernizzazione non è l’architettura moderna ma il Junkspace. Il Junkspace è ciò che resta dopo che la modernizzazione ha fatto il suo corso o, più precisamente, ciò che si coagula mentre la modernizzazione è in corso, le sue ricadute» (Koolhaas, 2006; p. 63). Secondo questa ipotesi gli spazi collassati a seguito di profonde trasformazioni, sociali, economiche, abbandonati all’interno di un processo di continua crescita, che ha caratterizzato sopratutto il secolo breve, possono essere considerati come oggetti o spazi di esclusione o espulsione dalle pratiche che ne avevano dato forma e significato per “inservibilità” ma anche per convenienza. Questi stessi spazi diventano per l’appunto un rifiuto rispetto alle nuove dinamiche economiche e sociali, legate per lo più alla sovra-produzione piuttosto che alla dismissione e conversione, ovvero ad uso oculato di quanto già realizzato. Come nel primo caso lo spazio abbandonato è il prodotto di una determinata storia economica e sociale, globale e locale, ma la parola “rifiuto” assume caratteristica negativa rispetto al personale approccio assunto da Koolhaas soprattutto nei confronti della società moderna.

L’ultimo termine, seppur per la lingua italiana risulti sinonimo di “rifiuto”, è lo “scarto” che rispetto a quanto scritto da Sara Marini (2010) può acquisire un significato disciplinare più utile nel prosieguo di questo breve articolo. Nella sua approfondita ricerca etimologia del termine Sara Marini individua una sostanziale differenza fra la rovina e lo scarto: «[…] se il primo fissa un preciso ambito bibliografico che ne esalta le capacità operative attribuendo agli oggetti che rappresenta un vero e proprio statuto d’identità, il secondo connota la condizione in cui versa la materia che va a rappresentare indeterminatezza e stasi, racconta resti senza traccia di un possibile significato e senza storia, o con una storia di poco conto» (Marini, 2010; p.58). Gli spazi abbandonati assumono la caratteristica di aree in “sospensione”, territori “neutri”: «[…] queste zone di mezzo si presentano come territori senza ruolo, ma questa mancanza rappresenta un’opportunità, una riserva da mettere in campo in un tempo non ben determinato» (Marini, 2010; p.47). Questa neutralità può rappresentare una dichiarata estraneità nei confronti del contento in cui gli spazi abbandonati stessi ricadono, un “vuoto” nel continuum delle letture e campiture degli strumenti urbanistici. Ma il vuoto è un termine vago e complesso «che spesso ha identità oppositiva e negativa. L’intervallo tra le parole è necessario al significato dei vocaboli utilizzati e alla costruzione del discorso; il silenzio costruisce la musica, attraverso le pause, insieme al suono; gli spazi che definiscono le figure di un dipinto o le aree scavate di una scultura sono parte integrante della espressione pittorica e di quella plastica; l’architettura si costruisce nel vuoto e allo stesso tempo lo racchiude, lo definisce» (Roveroni, 2008; p.271).

Una Regione smilitarizzata
A titolo esemplificativo farò qui riferimento alla dismissione del considerevole patrimonio militare sito in Friuli Venezia Giulia (FVG) ovvero la Regione più militarizzata durante il secondo dopo guerra fino alla caduta del muro di Berlino. «A partire dalla Pace di Vienna del 1866, su questa regione si sono svolti i principali teatri di guerra per la definizione e difesa del confine nord-orientale italiano: qui si sono susseguite le due Guerre Mondiali e la Guerra Fredda, conflitti molto diversi tra loro e combattuti su geografie politiche sempre mutate. Non fu quasi mai perseguito il riuso del sistema difensivo esistente e la sua costante implementazione ha lasciato sul territorio friulano una tra le più dense strutturazioni difensive d’Europa»[1]. Secondo uno studio della Procura Militare di Padova del 2001 in FVG risultano 407 siti militari abbandonati, ovvero una caserma ogni 15km per una popolazione regionale complessiva, al 2021, pari a 1.201.510 abitanti. Un numero di siti (ma soprattutto di superfici e volumi) impressionante per un territorio così poco densamente abitato (151ab/kmq) e divenuto di fatto un territorio fortemente militarizzato, un fronte a “difesa” del “blocco occidentale” nei confronti di quello “orientale”.

Una storia, quella del FVG, non forse conosciuta (e che forse andrebbe approfondita) che ha lasciato oggi in eredità un considerevole patrimonio militare abbandonato. Molti siti sono stati ceduti agli Enti locali altri rimangono ancora proprietà dell’Agenzia del Demanio. Nel primo così come nel secondo caso però si pone il problema di un loro riscatto, riqualificazione e riutilizzo, che dipende fondamentalmente dai bilanci comunali (che possono fare riferimento anche a finanziamenti degli Enti sovra-ordinati) ma soprattutto anche dalla loro collocazione geografica.

Molti siti infatti ricadono in ambienti urbani o peri-urbani (a titolo esemplificativo l’ex caserma Osoppo[2] nella periferia orientale di Udine ma ben inserita all’interno dei tessuti residenziali esistenti) e lavorare su queste aree negate alla città significa «[…] restituirle alla città stessa e garantisce alcuni aspetti positivi immediati: nel caso di siti pericolosi risanarli dai potenziali inquinanti sedimentati; limitare il consumo di suolo intervenendo in aree non esterne al perimetro urbano come “aree vergini” o terreni agricoli; restituire alla comunità aree rimaste per anni confinate colmando così quei gap urbani venutisi a formare col tempo, infatti molte di queste aree, a volte inaccessibili, risultano inglobate in una continuità fisica e di usi che ad oggi non gli appartiene; definire nuovi assetti, nuove relazioni e nuovi rapporti alla scala urbana e territoriale; ecc. In relazione però a ciò che viene restituito o potrebbe essere restituito alla città e/o alla comunità (servizi alla scala urbana o territoriale, nuovi parchi o aree verdi, nuovi quartieri residenziali, ecc..), queste aree assumono oggi il ruolo di vera e propria risorsa (talvolta anche economica)» (Vazzoler, 2012).

Altri siti invece ricadono fuori dai centri abitati, anche di piccole dimensioni. Questo è il caso di Aquileia[3] dove sono presenti l’ex caserma militare Brandolin e l’ex piattaforma di lancio missili (sito n.2 Hawk) dismesse nei primi anni 2000[4] e localizzate nelle aree agricole più settentrionali del Comune ad una distanza di circa 2,5km, in linea d’aria, dal centro storico. Entrambe le aree sono ancora di proprietà del Demanio e lo stato di abbandono ha raggiunto un livello di naturalizzazione ormai avanzato. Ma se nel primo caso l’Agenzia ha avviato nel 2020, in sinergia con l’Amministrazione comunale locale[5], un processo di valorizzazione, razionalizzazione e dismissione del patrimonio immobiliare pubblico ai sensi dell’art.15 della Legge 241/1990, nel secondo caso, la base missilistica rimane ancora “sospesa”, uno spazio “neutro”.

Monumenti
In entrambi i casi la strumentazione urbanistica locale (ma anche e soprattutto l’inerzia dell’ente proprietario) ha definito le condizioni utili e necessarie affinché flora e fauna si potessero impossessare dei siti dismessi e poi abbandonati. I piani urbanistici, seppur progettati con uno sguardo proiettato al futuro, devono fare i conti con un contesto in continua trasformazione e con il tramite di una moltitudine di varianti puntuali tentano di inseguire e adeguarsi al presente. Succede però anche che questi debbano confrontarsi con la fissità di alcune destinazioni d’uso che sono comunque in grado di produrre effetti diretti e indiretti sul territorio.

Le ex aree militari dismesse di Aquileia ricadono da Piano operativo in “Zone militari dismesse” le cui norme ne congelano l’utilizzo antropico. Lasciando da parte, d’ora in avanti, l’ex caserma Brandolin (per le vicissitudini procedurali che ne stanno variando la destinazione d’uso) e concentrandosi invece sul sito n.2 Hawk è possibile osservare come la flora e la fauna abbiano invaso i suoi spazi creando un nuovo serbatoio di naturalità e biodiversità (figg. 1 e 2). Il sito si presenta oggi come un “monumento del non fare antropico” che conserva o fa crescere la diversità biologica attraverso pratiche consentite di non organizzazione e non utilizzo. Dal punto di vista urbanistico il vincolo militare ha sostenuto quindi la crescita di un “giardino inviolato”, non soggetto ad azioni antropiche provenienti dall’esterno, un esempio di “terzo paesaggio”. Infatti, con questa locuzione Gilles Clèment (2005) indica tutti i luoghi abbandonati dall’uomo, le grandi aree disabitate del pianeta così come gli spazi piccoli e diffusi, invisibili. Spazi diversi ma accomunati dall’assenza di ogni attività umana, che singolarmente o presi nel loro insieme sono fondamentali per la conservazione della diversità biologica. In tal senso, interessante uno dei giardini realizzati da Clèment in cui mette in pratica le sue teorie: in particolare nel parco Henri Matisse a Lilla (1989-1992) si staglia un volume invalicabile in cui, a seguito di una piantumazione iniziale, la vegetazione si è sviluppata in modo spontaneo (Rocca, 2007).

L’ex piattaforma di lancio missili a seguito della sua dismissione diviene uno scarto così come più sopra descritto, con un ruolo urbanisticamente definito e riconosciuto dal PRGC ma ha raggiunto “involontariamente” una sua funzione ecologica legittima e che non si limita al perimetro del sito. Un “monumento per la conservazione della diversità biologica” che non deve essere inteso qui come fatto fisico e tangibile di una memoria storica. Un monumento che non si presenta quindi statico e immobile ma piuttosto vivo e vivace, capace di cambiare, crescere, deperire, rimodellarsi nelle sue forme e nella sua sostanza ovvero un insieme di connessioni di quegli elementi che fanno parte di un tutto organico e funzionalmente unitario, un sistema. Un monumento che per sua natura non è isolato, ovvero privo di capacità di scambio fra ciò che sta dentro o fuori di esso, o chiuso, capace solo di uno scambio etero-diretto, ma piuttosto un sistema aperto capace di uno scambio fra interno ed esterno con una impronta di cui è difficile, senza dati, comprenderne le dimensioni e la portata. Questo ne garantisce la sua stessa essenza.

Il PRGC del Comune di Aquileia non è conforme o adeguato al Piano Paesaggistico Regionale (PPR) che colloca l’area in oggetto fra quelle “compromesse e degradate”, in particolare “Dismissioni militari e confinarie” come specificato all’art. 33, comma 4, lettera f) delle NTA. Nell’abaco del Piano, riferito a queste specifiche aree, il PPR promuove i seguenti obiettivi di qualità paesaggistica: promuovere la conoscenza degli insediamenti e dei manufatti di interesse storico-testimoniale, monitorando le trasformazioni del contesto; promuovere la messa in rete degli insediamenti e dei manufatti di interesse storico-testimoniale, anche attraverso la realizzazione di percorsi di visita e itinerari dedicati; promuovere il riuso degli insediamenti e dei manufatti rurali in disuso per attività turistiche e del tempo libero compatibili. Il sito n.2 Hawk però presenta, come detto, una propria funzione ecologica, che andrebbe riconosciuta, e dal punto di vista funzionale può essere, ad oggi, visivamente ricondotto ad un’area boschiva. Sempre il PPR, rifacendosi alla L.R. 9/2007 “Norme in materia di risorse forestali”, all’art.28, lettera e), esclude da tale definizione «i terreni abbandonati nei quali sia un atto un processo di colonizzazione naturale da parte di specie arboree da meno di venti anni».

Sul sito militare abbandonato in oggetto è in atto un processo di naturalizzazione che è prossimo ormai alla scadenza prescritta da norma. Altre aree dalle caratteristiche naturali simili ma con dimensioni, forme e statuti diversi costellano il territorio comunale. Rifacendomi ancora a Clèment sono dell’idea che tutte possano concorrere alla conservazione della diversità biologica scansando oggi però ogni possibile azione di valorizzazione economica e di crescita antropica ove non strettamente necessaria. Se c’è del reale interesse a riconoscere questi “monumenti” credo che le Amministrazioni locali debbano avere il coraggio politico di considerare l’idea di lasciare le cose talvolta come stanno, come si sono evolute nel tempo, considerandole come categorie di un nuovo lessico della pianificazione urbana e territoriale al fine di garantire la sopravvivenza di questi scarti riconoscendo le ricadute positive interne ed esterne agli stessi.

 

Note

[1] Su questo tema si guardi allo ricerca, avviata nel 2010, “Un paese di primule e caserme su iniziativa di Cinemazero, Dmovie, Tuckerfilm e Larea – Arpa FVG.

[2] In tal senso si veda Vazzoler (2012).

[3] Per una conoscenza più approfondita su Aquileia e il suo territorio si faccia a Vazzoler (2021).

[4] In tal senso si è fatto riferimento alla tabella A prevista dall’art.1, comma 4, del “Resoconto sommario e stenografico” del Senato datato 18 giugno 2003.

[5] Protocollo di intesa firmato fra le parti nel luglio 2020, a cui sono seguiti sette tavoli di lavoro fra Agenzia del Demanio, Amministrazione comunale ed altri enti pubblici locali e sovra locali – fra cui la Regione FVG – al fine di avviare e definire una variante puntale al PRGC adottata in Consiglio comunale nella seduta del 28 settembre 2022, a seguito dell’approvazione l’ex caserma militare Brandolin varierà la sua destinazione urbanistica.

 

Citazioni e bibliografia

Choay F., 1995, L’allegoria del patrimonio, Officina edizioni, Roma, ed. or. 1992.
Clèment G., 2005, Manifesto del terzo paesaggio, Quodlibet, Macerata.
Harvey D., 2010, La crisi della modernità, Il saggiatore, Milano, ed.or. 1990.
Koolhaas R., 2006, Junkspace, Quodlibet, Macerata.
Marini S., 2010, Nuove terre. Architetture e paesaggi dello scarto, Quodlibet, Macerata.
Rocca A., a cura di, 2007, , 22 publishing, Milano.
Roveroni, S., 2008, Figure del vuoto, Tesi di dottorato XIX ciclo, Università degli Studi di Trieste
Secchi B., 2008, La città del ventesimo secolo, Editori Laterza, Bari, ed.or. 2005.
Vazzoler N., a cura di, 2021, SLOW Aquileia, EUT, Trieste.
Vazzoler N., 2012, “Housing sociale, crisi economica e consumo di suolo: laboratori sperimentali dell’abitare nei ‘luoghi della ritrazione’”, in Planum. The Journal of Urbanism, n.25, vol.2/2012, pp.1-8.

 

Illustrazioni – didascalie

Copertina: Interno dell’ex piattaforma di lancio missili di Aquileia (fonte web).

Fig. 1: L’avanzato stato di naturalizzazione che caratterizza il sito n.2 Hawk (fonte web).

Fig. 2: L’avanzato stato di naturalizzazione che caratterizza il sito n.2 Hawk (fonte web).