Tra arte, cinema e strade. Intervista a Giuliana Bruno.
di Claudia Faraone e Valentina Signore
Claudia Faraone, assegnista di ricerca, dip. Culture del Progetto, IUAV Venezia
Valentina Signore, dottorando, dipartimento di Architettura, Roma tre
Sono state tre giornate intense quelle del 4,6 e 7 Marzo 2013, in cui le quattro sezioni della Scuola Dottorale ‘Culture e Trasformazioni della città e del territorio’ hanno ospitato la prof.ssa Giuliana Bruno, docente del dipartimento di Visual and Environmental Studies alla Harvard University[1] . Giovani studiosi di Architettura, Urbanistica, Arte e Cinema[2] si sono ritrovati insieme per incontrare un’autentica esperta dell’ibridare e tessere connessioni tra i loro specifici campi di interesse. Noi siamo andate ad intervistarla, animate da almeno tre emozioni: entusiaste di conoscere da vicino chi ha fatto degli ‘sconfinamenti disciplinari’ non solo una specificità del personale percorso di ricerca, ma un dipartimento e un corso di dottorato; curiose di capire come si è formalizzato un metodo di ricerca per definizione in movimento; infine sfrontate e caparbie nel provare a portarla con noi su quel ponte tra teoria e pratica, tra interpretazione e progettazione, che ogni architetto e urbanista è chiamato continuamente a percorrere e costruire.
Il dipartimento della Harvard University in cui insegna dal 1990 si chiama Visual and Environmental Studies. Ci può spiegare di cosa si occupa?
Il dipartimento dove insegno e il dottorato di ricerca che ho voluto formare affrontano in modo particolare gli studi sulla visualità, guardando allo spazio e alla sua configurazione visiva, in tutte le forme che esso può prendere, dalla architettura all’arte contemporanea alle immagini in movimento. Ho risposto con piacere a questo invito, proprio per mettere in collegamento le diverse sezioni della Scuola Dottorale in un’ottica che strutturi, a livello istituzionale, oltre che a livello teorico e metodologico, questo tipo di ricerca transdisciplinare. L’esigenza attuale di costruire percorsi ibridi di ricerca deriva da momenti chiave della storia del pensiero moderno e postmoderno. Ad esempio, tale desiderio di tessere connessioni si ritrova nella teoria del cinema che, già dagli anni ‘60-‘70, comincia ad avere delle interrelazioni strette con altre discipline, come la semiotica e lo si ritrova anche in quello che negli Stati Uniti si chiama post-strutturalismo, e in particolare nella filosofia e gli studi di genere. I Visual Studies contemporanei sono, a detta di W. J.T. Mitchell -uno degli esponenti di questo pensiero di transiti- una in-disciplina, una disciplina che, piuttosto che essere formalizzata, cerca di mantenere sempre in essere questo movimento.
A proposito di questi “sconfinamenti”, in che modo la sua ricerca, condotta principalmente sugli archivi della storia dell’arte e dell’architettura, si spinge a confrontarsi con la ‘città reale’? Ad esempio, Lei impiega spesso metafore e figure interpretative come “palinsesto, bricolage, mappa, flâneur, atlante”, un lessico che coincide con quello adottato da molti architetti e urbanisti per leggere e orientare la trasformazione fisica della città. Nel suo lavoro che legame c’è tra questi due aspetti: l’archivio e la strada?
Per me il discorso non è stato mai slegato. Il mio primo libro[3] partiva dalla città reale, in questo caso da Napoli, nel senso che era un percorso di osservazione, anche intimo, vicino alla mia storia, alla mia cultura, alla mia conoscenza di una città non solo vista a distanza ma vissuta. La topografia non era semplicemente una disciplina, ma proprio un modo di vivere e di osservare la città, sia dalla strada che dalla prospettiva di una veduta a volo d’uccello. Il mio punto di vista viene dall’esperienza e nello stesso tempo cerca di teorizzarla, di trovare una maniera di mettere in rapporto questi due aspetti per produrre un oggetto differente. Questo vale per le metafore che citate, che fanno parte di un modo di fruire e pensare la città. La figura del flâneur mi interessa in quanto esempio vivente di un soggetto agente che trasforma la città nel camminare, nel guardare, nell’esser preso da una serie di stimoli provenienti dall’esterno che egli riesce sia a introiettare che a proiettare fuori, nell’immagine della città. Lo stesso si può dire per la mappa, che secondo me non va intesa come un sistema per cartografare e imporre ordine nel territorio, ma come un percorso. A differenza di Michel de Certeau che distingue tra mappa e viaggio, per me la mappa è un percorso, in cui facendo esperienza di un luogo posso anche ridisegnarne degli aspetti e raccontarne le potenzialità. L’esperienza per me non è soltanto ciò che si è vissuto, ma anche la potenzialità che deriva da questa capacità di interpretare e vivere la città. Quindi la mappa la intendo come un possibile progetto, che può non solo restituire un territorio ma anche trasformarlo.
Questo ci ricorda quanto scrive in “Pubbliche intimità. Architettura e arti visive” (2009) quando afferma che il cinema, oltre a mostrare un paesaggio mnesico, lo produce, ovvero ‘dà vita ad una memoria intersoggettiva e culturale’ . Ci sono degli esempi significativi in cui questa creazione di un immaginario comune -del cinema o di altre forme espressive – ha avuto delle ricadute su un contesto sociale?
Questo è molto complicato… c’è molta utopia in questo. Anche se l’utopia per me è una formula scatenante e produttiva. Sebbene possano mancare dei riscontri immediati, nel lungo periodo è possibile che alcune pratiche rappresentative mettano attivamente in moto delle cose. L’esperienza della psicogeografia urbana dei situazionisti è un esempio da questo punto di vista: l’idea ha avuto poco riscontro nella realtà, o inferiore a quello che ci si sarebbe aspettati, in termini della creazione di un urbanismo radicalmente diverso, cui pure questo movimento aspirava. Eppure ha influenzato decine di intellettuali, artisti, architetti e persone di varia estrazione che l’hanno assorbita e reinterpretata, riferendosi all’esperienza soggettiva, al contatto fisico, facendo emergere un diverso legame tra lo spazio urbano raccontato e chi lo vive. Frammentare una mappa di Parigi, farla scoppiare e ricomporla attraverso degli indicatori che rappresentavano degli itinerari esperienziali, ricchi di espressione emotiva, di storia, di memoria, è un intervento importantissimo, anche se non ha immediatamente creato una città o dei quartieri diversi.
Vorremmo ancora insistere su questo legame tra rappresentazione e produzione della città, stavolta da un altro punto di vista. Ad esempio la teorizzazione che Lei stessa produce potrebbe essere la base per individuare dei temi progettuali per una città. Le chiediamo perciò di immaginare di essere chiamata a fare parte di una equipe per il piano di una città, da cosa comincerebbe?
…Un piano? Voi architetti siete incredibili! Proverò a rispondervi, ma per non generalizzare, lo faccio a partire da trasformazioni urbane che mi riguardano, anche in senso autobiografico, fermo restando che per me relazionarsi ad un luogo significa non solo viverlo ma anche trasformare il proprio sguardo. Quando da Napoli mi sono trasferita a New York, avevo la sensazione di essere andata lontanissimo, di aver fatto un salto. Col tempo, ragionando sulla pratica dell’esperienza della città, ho scoperto molte risonanze tra questi due luoghi. Tra esse, ciò che forse più mi affascina è un comune senso della rovina, come forma di espressione che si protende verso il futuro. Certo, Napoli, al contrario di New York è una città antichissima, ma sono entrambe città di frammenti rovinosissimi da reinterpretare e riutilizzare. Se dovessi suggerire un tema su cui lavorare partirei dalla questione del riutilizzo urbano. Una delle scommesse urbane più interessanti che ho vissuto da vicino a New York è stata quella della trasformazione delle strutture industriali in gallerie d’arte e anche in abitazioni. Non solo in un loft si può sentire tutta una storia -da una manifattura ad uno spazio creativo e domestico- ma allo stesso tempo questa esperienza ha permesso di pensare e immaginare diversamente sia lo spazio domestico che lo spazio urbano. Il principio per cui il domestico deve essere uno spazio costrittivo, separato dal pubblico, è stato messo in discussione.
Rispetto al Suo metodo di ricerca le chiediamo di soffermarsi sulla presenza dell’elemento autobiografico come nota ricorrente. Può spiegarci da cosa deriva questa scelta?
La presenza dell’autobiografia va messa in relazione ai campi disciplinari in cui mi muovo: i Visual and Environmental Studies, così come i Media Archaeology, sono discipline ibride e ‘indisciplinate’. E’ possibile costruire una genealogia di questa metodologia, a partire da quegli autori che hanno approntato un approccio intellettuale alla cultura visiva che non separa, che non isola l’oggetto di cui si occupa, come Walter Benjamin o Aby Warburg. Si tratta di mettere in campo una differente visione di esperienza e di soggettività. Le mie ricerche sono delle esperienze incarnate, comportano la messa in gioco dell’esperienza personale per costruire dei nuovi ambiti e dei nuovi soggetti. L’attraversamento di varianti e le connessioni ibride che caratterizzano il mio lavoro corrispondono al tentativo di cambiare non solo un ambito esterno ma anche lo studioso stesso in quanto soggetto. Ciò implica un diverso modo di scrivere, in modo da non praticare solo la distanza accademica dall’oggetto, ma al contrario mettere in relazione oggetto e soggetto e mettere in discussione l’io parlante, anche in maniera scomoda. Non è detto che tutti abbiano questa tendenza o tensione. Personalmente lo trovo estremamente produttivo e vedo che le cose che mi interessano di più sono quelle che – anche a livello culturale e sociale – nascono a livello di meticciati.
Bibliografia essenziale
Bruno, Giuliana. Rovine con vista. Alla ricerca del cinema perduto di Elvira Notari, Milano, La Tartaruga edizioni, 1995.
Bruno, Giuliana. Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Milano, Bruno Mondadori, 2007.
Bruno, Giuliana. Pubbliche intimità. Architettura e arti visive, Milano, Bruno Mondadori, 2009.
Bruno, Giuliana. La texture del visuale: tensioni sulla superficie delle immagini, Alfabeta2, n.21, Luglio/Agosto 2012.
[1] Le tre giornate si sono articolate in una conferenza dal titolo Tensioni sulla Superficie: Architetture dello schermo e arti visive e due giornate seminariali, coordinate dalla Prof.ssa Veronica Pravadelli del DAMS di Roma Tre, rispettivamente con i temi Visual Studies: arte, architettura e cinema e Archeologia dei media, storia materiale.
[2] Riferendosi rispettivamente alle sezioni della Scuola Dottorale: Progetto Urbano Sostenibile, Politiche Territoriali e Progetto Locale; Il Cinema nelle sue interrelazioni con il teatro e le altre arti; Storia e conservazione dell’oggetto d’arte e di architettura.
[3] Bruno, Giuliana. Streetwalking on a ruined map: cultural theory and the city films of Elvira Notari, Princeton University Press, 1993.