ISSN 1973-9702

Copertina

Riflessioni sul costruire ‘dove era come era’

di Giuseppe Ferrarella

Dottore di Ricerca, Dipartimento di Architettura, Roma Tre 

 

Il 3 gennaio 1960 appariva tra le pagine de L’Espresso un articolo titolato Assalto a Villa Deliella; Bruno Zevi denunciava pubblicamente le vicende che portarono alla rapida demolizione della dimora progettata da Ernesto Basile il cui sedime sarebbe stato d’uopo per la realizzazione di condominio che, però, non venne mai costruito. Da allora l’isolato, rimasto inedificato, è stato periodicamente oggetto di interesse sia da parte dell’amministrazione, che alla fine degli anni ottanta commissione a Mario Botta un progetto per la sistemazione dell’area, sia da parte della facoltà di architettura, che attraverso tesi di laurea e laboratori ha indagato le criticità del luogo. L’area su cui una volta insisteva la villa è degna di nota rispetto a due classi di valori: i primi ‘simbolici’, legati al monito di un vuoto urbano risalente al periodo del ‘sacco di Palermo’, ed i secondi architettonici, dovuti e caratteristiche urbane del lotto. Questo si ancora al tratto terminale di via Libertà attraverso piazza Crispi e costituisce un nodo urbano potenzialmente analogo a quelli istituiti da piazza Verdi col Teatro Massimo e da piazza Castelnuovo con Politeama Garibaldi. Tali luoghi concorrono alla scansione del percorso rettilineo di uno dei due assi della croce di strade con cui si è organizzata la città moderna nella sua espansione recente. Visto il rinnovato interesse per l’area, concretizzatosi nel workshop Villa Deliella 1959-2019 promosso Dipartimento dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana della Regione Siciliana e organizzato dall’Ordine degli Ingegneri della provincia di Palermo, si è deciso di ripubblicare un testo costituito da riflessioni maturate e scritte per un blog di critica della cultura[1] in occasione della proposta di ricostruzione ‘come era dove era’ di villa Deliella avanzata nel 2015 da due architetti Palermitani.[2]

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«Ogni città ha un suo programma implicito che deve saper ritrovare ogni volta che lo perde di vista. Pena l’estinzione. Gli antichi rappresentavano lo spirito della città con quel tanto di vaghezza e quel tanto di precisione che l’opera comporta, evocando nomi degli dei che avevano presieduto alla sua fondazione. Una città può passare attraverso catastrofi e medioevi, vedere stirpi diverse succedersi nelle sue case, vedere cambiare le sue case pietra per pietra, ma deve, al momento giusto, sotto forme diverse, ritrovare i suoi dèi». [Calvino I. 1995, pp. 349-350]

Gli dei di Calvino incarnano le idee che hanno costituito la città; idee che prescindono un tempo preciso e variando di poco, tradimento dopo tradimento, arrivano a noi veicolate dal costruito, dal non costruito e dal demolito. Diverse da come erano prima eppure ancora simili a se stesse, sono – quantomeno per ciò che concerne l’architettura – i temi, i tipi e i principi che risiedono nell’arte di costruire proprio di un luogo, soggetto alle risorse materiali e culturali dello stesso.

L’identità di una cultura cui approda il racconto della storia di un popolo è costituito anche di artefatti, ma principalmente dalle idee e dalle ragioni ad esse sottese che ci permettono di collocarli nel tempo in maniera più precisa di qualsiasi datazione[3]. L’opera è costituita dall’artefatto e dalla sua ragione, l’insieme delle due cose ci consente di comprendere a quale ‘contemporaneo’[4] appartenga. Per questo gli oggetti posseggono almeno due istanze fondamentali: l’oggetto in sé, che non significa altro che se stesso e le ragioni della sua forma, che appartengono tanto all’oggetto quanto alla sua ‘famiglia di forme’. In terza istanza vi sono i significati altri, le metafore e i simboli, la cui natura rispetto all’oggetto è esogena, non appartenendogli e esistendo esclusivamente come apparato effimero o, comunque, transitorio.

Capita, come nel racconto di Calvino, che una città possa passare per catastrofi e medioevi, ed è in questi momenti, in cui il presente è incerto e i valori inconsistenti, che l’attenzione si volge al passato[5] e le persone si affezionano all’idea di un luogo migliore che un tempo è stato, che ora non è più, o che forse, semplicemente, non è mai stato. Un po’ come quando ci si perde in un quartiere confuso e rumoroso o nel frastuono di una metropoli e per capire dove andare ci si fissa su un oggetto alto e lontano, come una torre o una cupola. Ma ciò che cerchiamo non è l’oggetto scrutato, ma la strada di casa.

Il dibattito sulla possibile ricostruzione di Villa Deliella è stato presentato da una lettera aperta nella quale si afferma che «niente può sostituire nella memoria e nella coscienza Villa Deliella; niente se non Villa Deliella può colmare il vuoto lasciato alla città […]»[6],ma villa Deliella non c’è più, e non la sostituirà un feticcio che, a fronte del come era dove era, al massimo ‘apparirà’ come tale, in un luogo che era e che, inoppugnabilmente, non è più.

L’assenza della seconda istanza fondamentale – le ragioni che hanno scaturito la forma – unita alla scomparsa del luogo dove sorse e al mutare di gerarchie e relazioni dello stesso, porterebbero ad una operazione che ha in sé il germe dell’abominio. La copia di un oggetto catapultato in un luogo che non è il suo. Una scena fissa ‘rossiana’ i cui referenti non sono più gli attori ma gli spettatori.

La memoria e l’identità, gli dei della città, non si perseguono imponendo pedissequamente alla realtà edifici del passato. Memoria e identità prescindono la materia pur facendone parte.

La ricostruzione ‘tautologica’ di una casa non costituisce un falso storico, né tantomeno può essere paragonato alle reintegrazioni postbelliche sui monumenti parzialmente distrutti, al contrario si innalzerebbe il fantasma di un edificio che non appartiene al nostro tempo.

Villa Deliella era una delle architetture che incarnavano la vivacità e lo spessore culturale di una epoca che onorava una tradizione di lungo respiro e che, per numerose ragioni – legate per lo più allo spirito discutibile dei nostri tempi – oggi sembra assente. Era espressione di quella tradizione, che a ritroso dirige verso l’architettura ai tempi della rivoluzione francese e verso di noi passa per il moderno; quella maniera di pensare l’architettura esiste ancora, ma per sua natura predilige il silenzio e si affretta con lentezza. Le ‘idee’ di villa Deliella non si deteriorano come gli edifici alle cui ragioni sono sottese.

Per sessant’anni si è parlato e si è scritto su quella lacuna; studenti e architetti si sono cimentati per anni con quel vuoto che, oltre la tragedia della demolizione, rappresenta una occasione di progetto per la città. Molti hanno tradotto in forma idee, avanzato proposte, ma nella Palermo che ‘dice’ di volersi riscattare la proposta di ricostruzione ‘tale e quale’ suona come la resa alla nostra incapacità di rinnovamento. Il valore simbolico dell’operazione non sarebbe di “riscatto”, non più di quanto lo sarebbe stato ricostruire tali e quali le due torri gemelle di New York City, la cui memoria ora è onorata, insieme alle migliaia di morti, da due tombe.

Palermo non ha bisogno di altri simboli e di ulteriori martiri; non serve portare in processione una sesta patrona, occorre invece assumere consapevolezza che le idee legate al tempo che fu esistono ancora in quella ‘famiglia spirituale’ taciturna.  E che in fondo gli dei della città non sono altro che gli “avi e gli amici” della famiglia spirituale cui dichiariamo appartenenza, e che questi «non sono ricordo, ma presenza. Essi stanno ritti davanti [a noi] più che mai vivi».[7]

A noi tocca scegliere i nostri avi, a noi tocca ritrovare i nostri dei.

 

Note

[1]Impression Review – Rivista Digitale di Critica della Cultura; https://cahierssite.wordpress.com.

[2] http://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/11/21/news/_ricostruiamo_villa_deliella_il_documento_e_le_firme_degli_aderenti-127863413/

[3] Cfr. H. Focillon, Vita delle Forme. Elogio della Mano, Einaudi, Torino 2002.

[4] Ibidem

[5] Cfr. Gregotti V. 1997.

[6] http://palermo.repubblica.it/cronaca/2015/11/21/news/_ricostruiamo_villa_deliella_il_documento_e_le_firme_degli_aderenti-127863413/

[7] Cfr. H. Focillon, Vita delle Forme. Elogio della Mano, Einaudi, Torino 2002;

 

Bibliografia

Gregotti V., Necessità del passato, in Il progetto del passato. Memoria, conservazione, restauro, architettura, a cura di B. Pedretti, Mondadori, Milano 1997.

Calvino I., Gli dei della città, in Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Tomo I, Mondadori, Milano 1995

Focillon H., Vita delle Forme. Elogio della Mano, Einaudi, Torino 2002

Gregotti V., Necessità del passato, in Il progetto del passato. Memoria, conservazione, restauro, architettura, a cura di B. Pedretti, Mondadori, Milano 1997.

 

Immagini

Copertina: Villa Deliella in una foto d’epoca.

Fig.1: Assalto a villa Deliella.  Articolo di Bruno Zevi del 1960.

Fig.2: Ortofoto dell’area di villa Deliella in rapporto all’asse di via Libertà e del Politeama Garibaldi [foto Google®].