ISSN 1973-9702

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ADIEU AU LANGAGE #03: Contraddizione e Decostruzione

di Flavio Graviglia

Dottorando, Dipartimento di Architettura, Roma Tre

 

“C’è troppo rumore visivo nel nostro ambiente” – Ripeteva Peter Eisenman al suo interlocutore, sfogliando le fotografie dei propri edifici pubblicati sulle copertine delle maggiori riviste internazionali – “Ciò che sto cercando di fare è mettere in discussione il dominio della visione ” [1]. Un boato, poi un rombo. Crollò tutto.

Deconstructivist Architecture

Erano passati sedici anni da quando Philip Johnson aveva organizzato nel 1988 al MoMa di New York, la mostra Deconstructivist Architecture, e cominciava ad esser chiaro come quel processo avviato sul finire degli anni ottanta risultasse tutt’altro che terminato. Le architetture esposte, così differenti a causa delle varie sensibilità degli architetti, furono accomunate dalla produzione di spazialità complesse, destabilizzanti; edifici che si proponevano di oltrepassare i confini della geometria euclidea, rifiutando i principi ordinatori dello spazio prospettico rinascimentale. Una moda passeggiera, dissero alcuni. Un elegante assassinio, sussurrarono altri.

Fiumi di inchiostro furono spesi, nel tentativo di instaurare un proficuo dialogo con le più importanti figure del post-strutturalismo francese. Saggi, articoli, interviste, rimangono oggi chiari esempi di come l’architettura sia stata capace di nutrirsi degli impulsi culturali che caratterizzarono il dibattito filosofico di fine secolo.

Tra i progetti proposti, molti rimasero sulla carta, altri influenzarono le tendenze del momento, oscillando con eleganza tra cultura di massa, snobismo e rivoluzione. Accesa la miccia e costruite le prime opere, il passaggio da avanguardia a brand fu breve ed indolore.

L’innesco

La scintilla capace di innescare l’ordigno fu senz’altro il titolo. Decostruttivismo. Bisogna riconoscere che chi ha avuto l’intuizione di traslare le teorie della Decostruzione di Jacques Derrida nel campo architettonico è stato anzitutto un abile titolista. Quel nome prossimo alle avanguardie sovietiche, racchiudeva in un unico termine tutte le speranze di una generazione di giovani architetti che negli anni ottanta tentava di superare i propri maestri, senza cedere ai formalismi suggeriti dalle mode postmoderne. Decostruzione, nome ambiguo. Ottimo per specularci sopra sincere, attraenti teorie, quanto sufficientemente approssimativo per essere a piacimento banalizzato.

Alcuni architetti se ne distanziarono, altri interpretarono il termine dè-construction dal punto di vista puramente formale, come fosse una scomposizione ed una ricomposizione della materia. Eppure la parola costruzione, che in italiano usiamo comunemente come sinonimo di edificio, riferendoci dunque ad un oggetto fisico, in francese si traduce più comunemente come “batiment”, concedendo al termine “construction” una sfumatura maggiormente figurata.

Il termine Déconstruction era stato introdotto per la prima volta da Jacques Derrida nel testo “Della Grammatologia” e successivamente in “Psyché”, nel quale spiegava la scelta del vocabolo, diffuso a seguito della traduzione dei termini heideggeriani di Destruktion e Abbau. Il filosofo affermava che in francese il termine destruction implicava una riduzione negativa, troppo vicina alla demolizione, mentre la parola déconstruction, presente ma entrata in disuso nella lingua francese, risultava più consona per descrivere il suo pensiero.

La Decostruzione derridaiana risulta essere una scomposizione teorica, atta ad affrancare l’architettura da condizionamenti esterni. Un’architettura assoluta, dal latino ab-solutus, “sciolta da” che, come scriveva lo stesso filosofo, non era “più subordinata a dei valori altri da sé, che siano questi utilitari, estetici, metafisici o religiosi” [2].

Dunque nulla a che fare con una scomposizione formale dell’edificio o una decostruzione letterale della struttura, bensì un gesto legato ad un processo di ricerca teorico e stimolante, seppur carico di equivoci dalle conseguenze progettuali talvolta ingestibili.

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L’Esplosione

Seppur banalizzata e contraddetta, ridicolizzata e svuotata di parte della propria portata culturale, la Decostruzione divenne il marchio delle più importanti opere architettoniche dell’ultimo ventennio. Ciascuna città pretese il proprio museo, il proprio aeroporto, la propria stazione, costruendo delle icone che ebbero il sincero merito di risollevare le sorti economiche di intere regioni ed alimentare un dibattito architettonico altrimenti assopito.

Più l’Europa promuoveva le nascenti architetture, più veniva privata dell’egemonia culturale che da sempre esercitava sul resto del mondo. A morire fu quel bagaglio compositivo dell’architettura Classica, formato da codici sapientemente organizzati durante il rinascimento, che avevano condizionato, dal quindicesimo secolo sino alla modernità, il corso dell’architettura occidentale attraverso l’uso della rappresentazione prospettica.

Rinascimento e Fotografia

La diffusione della prospettiva fu favorita nel corso dei secoli dall’utilizzo delle camere ottiche, apparecchi che permisero ai pittori di impostare con precise geometrie la struttura dei propri dipinti. Questa rivoluzione della comunicazione visiva trovò compimento nella seconda metà del XIX secolo con l’invenzione della fotografia, grazie alla quale si concretizzò la possibilità di produrre immagini prospettiche anche senza la necessaria conoscenza delle regole geometriche. L’apparecchio fotografico permise di fissare su un supporto fisico le immagini generate dalle camere ottiche, riproponendo di fatto la struttura compositiva che era stata alla base dei quadri rinascimentali; questa rappresentazione spaziale, un tempo appannaggio di soli artisti e architetti, divenne accessibile ad una quantità maggiore di persone, diffondendosi nella nascente società di massa.

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Il risultato di questo processo fu che tutte le immagini fotografiche, prodotte dall’ottocento sino ai nostri giorni, hanno continuato incessantemente a tradurre lo spazio reale nelle regole prospettiche cinquecentesche, condizionando tanto l’architettura quanto la sua comunicazione. Del resto, ogni volta che scattiamo una fotografia, traduciamo il mondo esterno nelle regole prospettiche rinascimentali, condizionando lo scarto esistente tra la realtà e la sua rappresentazione.

La Decostruzione ha simboleggiato plasticamente la volontà di scardinare i principi ordinatori di tale organizzazione spaziale, proponendosi di oltrepassare i confini della geometria euclidea e mettendo in discussione quel bagaglio figurativo dell’architettura Classica.

La fine del Classico       

Barocco e Movimento Moderno si erano prefissati di mettere in crisi la staticità della rappresentazione rinascimentale, ma si mossero in continuità con il linguaggio Classico, operando piccole e grandi alterazioni che non furono in grado di scalfirne la struttura. La Decostruzione fu un’altra faccenda, apparentemente fu vera rottura.

Un intento lacerante, promosso da un pensiero nato in seno alla vecchia Europa e sviluppatosi altrove; opportunità che gli permise di emanciparsi dal fardello di un passato ancora troppo presente nelle città continentali. Momento di rottura della composizione classicista, cardine destabilizzante di un passaggio di consegne, la Decostruzione fu per la storia dell’architettura ciò che l’impressionismo era stato per la pittura: la percezione sensoriale cessava di essere subalterna al linguaggio dell’opera assumendone piena centralità [3]. La stimolazione dei sensi sembrava divenire il fine principale della realizzazione degli edifici costruiti sulla scia propagandistica della mostra di Philip Johnson. Tutto il resto passava in secondo piano. Teorie derridaiane comprese.

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Contraddizione e Decostruzione

Mi contraddico? Certo che mi contraddico. Sono ampio, contengo moltitudini [4]. Peter Eisenman doveva ripetersi tra sé e sé l’aforisma di Withman, mentre sfogliava le fotografie dei suoi edifici, pubblicati sulle copertine delle maggiori riviste internazionali. Perché se la Decostruzione fu il tentativo di superare le logiche dello spazio rinascimentale, riequilibrando il dominio della visione a favore di una percezione basata sulla totalità dei sensi, la fortuna degli edifici prodotti fu proprio la possibilità di promuovere le architetture attraverso immagini fotografiche, pubblicate e reiterate infinite volte sulle piattaforme virtuali.

Architetture divenute simboli ed icone, immagini prima che edifici, contraddicendo di fatto i propri intenti progettuali: la fotografia finì per veicolare la Decostruzione proprio attraverso quelle logiche che gli architetti si erano prefissati di superare e sconfiggere, trovando paradossalmente in essa il tramite della loro fortuna. Ambiguità che generò da un lato architetture sensoriali, da assaggiare e toccare, profondamente ancorate alla fisicità della costruzione, dall’altro edifici-immagine, eredi della tradizione visiva rinascimentale, perfettamente spendibili come icone pubblicitarie.

De-costruzione dunque, ambiguità e contraddizione, luogo d’incontro tra filosofia e chiacchiere da bar, tra arte colta e pittori della domenica, espressione di quella cultura di massa fiorita nell’era della comunicazione, perché in fondo, ogni rivoluzione porta in grembo la propria reazione.

Parigi, Maggio 2016

Bibliografia

Derrida J. 2008. Adesso l’Architettura. Libri Scheiwiller, Milano

Derrida J. 1967. De la grammatologie. Les Éditions de Minuit, Paris

Derrida J.1987. Psyché Inventions de l’autre. Galilée, Paris

Ferraris M. 2005. Ricostruire la decostruzione. Bompiani, Milano

Eisenman P. 2009. La fine del Classico, a cura di R. Rizzi, F. Rella, Mimesis, Milano

Brogi D. 2007. Peter Eisenman. Motta Architettura, Milano

Ciorra P. Ciucci G. 1993. Peter Eisenman, Opere e Progetti. Electa, Milano

Pallasmaa J. 2005. L’architettura e i sensi. Gli occhi della pelle. Jaca Book, Milano

Martellotti D. 2004. Architettura dei sensi, Mancosu, Roma

Vidler A. 2002, Warped Space: Art, Architecture, and Anxiety in Modern Culture, The MIT Press, Cambridge

Note

[1] Intervista a cura di C. Visentin, Genova, dicembre 2004. Pubblicata su Peter Eisenman, Brogi D. Motta Architettura, 2007, Milano.

[2] Derrida J. 2008. Adesso l’Architettura. Libri Scheiwiller, Milano.

[3] Per approfondire consultare l’articolo “ADIEU AU LANGAGE #02: Architettura Impressionista”, pubblicato su UrbanisticaTre, febbraio 2016.

[4] Walt Whitman, Foglie d’erba, Canto di me stesso.

Didascalie Immagini

[Immagine Copertina]: Peter Eisenman. Memoriale per gli ebrei assassinati d’Europa, Berlino.

[Immagine A] : Peter Eisenman. Città della Cultura della Galizia, Santiago de Compostela, Spagna.

[Immagine B] : Camera ottica.

[Immagine C] : Daniel Libeskind. Museo Ebraico, Berlino.