Da Putin a Pedrini.
Contro-appunti sulla 15^ Biennale di Architettura di Venezia
di Giorgio Piccinato
Professore Emerito di Urbanistica Università degli Studi Roma Tre
Non sono sicuro che questa Biennale restituisca un’immagine attendibile dell’architettura contemporanea. Certo, com’è ragionevole, ne illustra copiosamente alcuni aspetti, considerati spesso “minori” dalla grande stampa del settore. Di qui una commendevole insistenza su alcuni meccanismi di costruzione del processo (e non degli edifici) che sembra prefigurare un mondo costruito al di fuori delle regole e degli insegnamenti delle scuole di architettura. Recuperare antichi materiali e pratiche in disuso che valgano a farci ricordare o riscoprire contesti ormai quasi cancellati, riaffermare identità smarrite attraverso il riciclaggio low cost di manufatti residuali, reinterpretandoli con intelligenza e creatività. Molti architetti, in tutto il mondo, si applicano a questa impresa, istruendo maestranze ohimè dimentiche degli antichi saperi, anche se una domanda sorge spontanea: ma i giovani architetti dove li avranno imparati? Tra questi un gruppetto di giovani cinesi, che richiesti di progettare un museo di storia locale, ne hanno approfittato per avviare la ricostruzione di antiche case secondo tecniche tradizionali a base di sassi e mattoni, che ridenti operaie portano in spalla. Non solo: per sottolineare la ricchezza della storia, si sono impegnati nella costituzione di un complesso di musica barocca dedicato a Teodorico Pedrini (1671-1746) un missionario gesuita di Fermo, che portò in Cina, dove morì, la musica dell’Occidente. Ma è ancora una volta la Cina a presentare, in fondo all’Arsenale, il padiglione più raffinato, fatto di vasche di terra dove sono adagiati antichi abiti e oggetti, scarsamente illuminati da luci misteriose. Convincente per altri versi anche il padiglione italiano, il cui stile comunicativo molto “pop” o “graphic novel” appare particolarmente adatto a trasmettere il senso della scelta di alcune realizzazioni “povere” di manufatti utili e poco dispendiosi.
Tutto questo è buono, ci fa sentir bene, una specie di sollievo dopo aver tanto deprecato i grandi nomi di architetti che riempiono le patinate riviste, di architettura e non, ormai tutti immediatamente riconoscibili come qualsiasi altro brand commerciale. Solo che, per quanto ci consolino tante sperimentazioni –dedicate in gran parte agli ultimi della terra- di processi costruttivi alternativi e sostenibili, la realtà edilizia prodotta dal mercato, dovunque nel pianeta si manifestino fenomeni di nuova urbanizzazione e sviluppo, è di tutt’altro tenore: rapidamente ma efficacemente lo ricorda la sezione “Conflicts of un urban age” curata da Ricky Burdett, che presenta una deprimente rassegna di grandi progetti (e grandi realizzazioni) in corso un po’ dovunque sotto l’insegna della globalizzazione. Ben venga quindi il padiglione della Corea che, presentando i FAR (Floor Area Ratio) Games, affronta il tema della densificazione del patrimonio costruito, e cioè della città che, pur realizzata secondo regole, ne affronta necessarie modifiche all’interno di un nuovo possibile statuto. Un obiettivo peraltro non dissimile da quello presentato come “Neubau” per la città tedesca, dove nuovi edifici vanno a completare coraggiosamente aree per diverse ragioni svuotate o abbandonate. Il padiglione che sembra più allontanarsi dalle indicazioni del curatore Aravena è quello russo (ma verrebbe da dire sovietico). La grande esposizione che nel 1939 esaltava i successi della società e dell’economia sovietica, per molti anni abbandonata, vive oggi una seconda giovinezza non immemore, anzi non poco nostalgica di una potenza e di una gloria cui la nuova Russia di Putin non ha evidentemente alcuna voglia di rinunciare. Su un terreno di quasi 500 ettari, si elevavano i padiglioni esaltanti le scienze, la tecnologia e, soprattutto, le diverse nazionalità che costituivano l’Unione, con evidenti richiami alle tradizioni e ai costumi locali. Dopo un lungo periodo di oblio, il complesso è ora in fase di recupero per trasformarlo in uno “spazio culturale ed educativo multifunzionale, accessibile a tutti” secondo le parole del curatore Kuznetsov. Questo offre il pretesto per la ricostruzione degli apparati decorativi architettonici e di una statuaria in gran parte nota perché vista innumerevoli volte nelle diverse espressioni della propaganda di regime: il padiglione russo presenta un buon numero di eccellenti repliche in scala ridotta di quei manufatti, mentre espone, in una sezione a parte, una specie di archivio con copie dei piani, degli edifici e delle decorazioni d’epoca. D’altra parte, le Biennali di Architettura sono spesso così –non sempre in tono con le dichiarazioni d’intenti ufficiali- e non è detto che sia un male.