Modelli a rete
Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova
CITTÀ A RETE
Il termine appare in seguito alle ricerche che ipotizzano non solo la scomparsa del limite riconoscibile della città contemporanea, ma anche l’incertezza gerarchica dell’urbano stesso (Harvey 1989; Curti, Diappi 1990; Dematteis 1990, 1991a, 1995, 1999; Dematteis, Guarrasi 1995): “una morfologia urbana [a rete] corrisponde [a] un sistema di connessioni funzionali dove alla tradizionale gravitazione a stella e ad albero dei centri minori intorno alle città maggiori si sostituisce un tessuto connettivo continuo difficilmente comprensibile e gerarchizzabile. […] l’incertezza non riguarda solo i confini, ma la stessa individuazione dei centri e delle loro gerarchie” (Dematteis 1999, p. 7).
La ragion d’essere della città contemporanea non risiederebbe semplicemente nell’esplosione dei centri urbani su un territorio più vasto, attuata con la ridistribuzione di quelle che potevano essere definite “attività centrali” (centri decisionali, commerci specializzati, uffici, grandi alberghi, hub, ecc.) nei centri minori o in nuovi nuclei negli spazi aperti, seguendo le innervature delle grandi infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni. L’espandersi della città si accompagna anche a una crescita esponenziale delle relazioni di lungo raggio che ogni frammento di territorio urbano intrattiene con altri analoghi frammenti, indipendentemente dalla distanza fisica che li separa. La città a rete non è solo una catena continua di interconnessioni che si estende ovunque, è anche una rete iperconnessa, in cui ogni nodo è virtualmente prossimo a ogni altro: Wall Street e la City di Londra, pur essendo separate dall’oceano, sono di fatto contigue, mentre restano lontanissime da altri luoghi fisicamente vicini, come i ghetti neri di Manhattan o i quartieri poveri di Lewisham.
In quest’ottica, la città a rete è addirittura riconoscibile nel reticolo dei legami economici preferenziali che nell’antichità univano le colonie elleniche e fenicie (Gottmann 1970) o le città europee tardo-medioevali (Hohenberg 2006).
Con la generalizzazione odierna del modello reticolare al mondo intero – una vera e propria ecumenopolis (Doxiadis 1974) – si passa a un network non più basato sulla rete delle città compatte maggiori, bensì su “nodi” meno riconoscibili, nati come punti opportunistici di una diffusa trama di connessioni e sinergie reciproche, che hanno un’esistenza e un’organizzazione autonoma: città a rete diviene sinonimo di un sistema funzionalmente frammentato che non permette più di pensare alla città come a un’entità fisica e sociale unitaria.
Nella letteratura più recente (Magnaghi 1998; Magnaghi, Marson 2004), tuttavia, si ipotizza che la perdita del senso unitario e collettivo possa essere ricostruita attraverso l’interconnessione dei suoi nodi all’interno di un milieu locale attivo e finalizzato al raggiungimento di determinati obiettivi. La coesione e l’identità urbana si ricostruirebbero solo consapevolmente, la città come rete globale a livello locale. È al livello locale, infatti, che la città conserva una catena di relazioni più o meno forti che uniscono collettività e individui, spingendo tutti questi soggetti eterogenei e diversi a connettersi tra loro, invece che a polverizzarsi. Il milieu urbano è dunque al tempo stesso ancoraggio per le reti globali, che vedono in esso le condizioni migliori per il funzionamento dei loro nodi, e legante che amalgama gli attori locali (Dematteis 1991b, 1999).
Alcuni autori portano alle estreme conseguenze il rapporto tra reti globali e sistemi locali, associandolo a un meccanismo automatico di domanda-risposta, alla stregua di un sistema territoriale autoregolato (Curti, Diappi 1990). Tuttavia, queste conclusioni sono oggetto di critica (Harvey 1989) perché ripropongono il paragone ormai sorpassato tra città e macchina nell’accezione contemporanea di growth machine, perché il termine “autoregolazione” è frainteso e sostituito dal termine “inevitabile” e perché la preparazione teorica degli urbanisti non interpreta correttamente le analogie che i sistemi urbani globali sembrano avere con le macchine non banali o con i sistemi autopoietici.
CITTÀ SPARPAGLIATA O SCATTERED CITY O VILLE ETALÉE O VILLE EPARPILLÉE
Modello concettuale in cui tendenzialmente non vi è più un unico centro, ma una serie infinita di piccole polarità funzionalmente integrate in una rete regionale di trasporti e comunicazioni fortemente connessa (Rufì 2004). Questa forma sparpagliata, tuttavia, è costituita da una collettività che non ha più un comune “senso dello spazio, della sua unità [e] della sua organicità, impoverita com’è dalla perdita dei riferimenti identitari, con residenti – piuttosto che abitanti – sempre più slegati dai luoghi della città diffusa e dagli stessi ritmi di vita che la megalopoli impone oggi ai cittadini” (Turri 2000, p. 170). È un modello reticolare ad alto consumo di suolo che utilizza tutti i gradi di libertà concessi dalla diffusione delle tecnologie di cablaggio dei dati e della privatizzazione dei trasporti. In questo senso, è definita anche enlarged city (Dematteis 1991a).
Questo modello incontra presto due limiti: il primo, spaziale, derivante dalla mancanza di superficie libera per adeguare periodicamente le infrastrutture di trasporto sottoposte all’aumento esponenziale del traffico; il secondo, di tipo ambientale, che determina un progressivo scadimento delle campagne e degli spazi aperti (Cinti 1997), soprattutto quando la commistione fra residenze e piccole unità di produzione industriale è molto spinta (Camagni et al. 1994). Quando questo secondo aspetto è maggiormente rilevante, la definizione di città sparpagliata assume i connotati ancor più negativi di spread city (Rufì 2004).
CITTÀ o METROPOLI A RETE DECENTRATA POLICENTRICA
La città a rete decentrata policentrica è un modello ideale che include in una visione unica due modelli estremi di pianificazione territoriale, la città radiocentrica e la città sparpagliata. Questo modello permette di mantenere, da una parte, il senso della città compatta tradizionale attraverso il riferimento al centro e all’effetto-città; dall’altra, di integrare in una rete efficiente i centri periferici, diffondendoli su un vasto territorio. In quest’ottica, il disordine crescente derivante dall’espansione urbana è mitigato dal crescente peso delle località minori (Camagni et al. 1994).
Alla base di questo concetto c’è la teoria delle località centrali di matrice funzionalistica (Christaller 1930) che offre un modello interpretativo dell’insieme delle città di una regione, presentandolo come una rete gerarchicamente ordinata di centri che producono beni e servizi di rango diversificato, ma in eccesso rispetto alle esigenze dei propri abitanti; il surplus, quindi, è dirottato verso i territori circostanti. Secondo questo schema interpretativo, il contesto urbano ospita le cosiddette “funzioni centrali”, ma l’area di mercato si estende anche nelle aree agricole e rurali.
Per combinare efficacemente i vantaggi di entrambi i sistemi e realizzare un sistema pienamente policentrico, è necessario riutilizzare prima lo spazio urbano sottoutilizzato o dismesso, per poi concentrare la crescita urbana nelle aree di frangia dei più grandi centri urbani. In questo modo il potenziale dei nuclei centrali può essere sfruttato al meglio, senza intervenire sulle infrastrutture (Buijs 1990). Parallelamente, le aree di frangia non devono accrescersi assumendo caratteristiche concentriche, ma devono seguire un numero contenuto di direttrici di sviluppo, con ampi cunei verdi che penetrano nell’area urbana. In ciascuna direzione dovranno essere garantite sufficienti funzioni centrali di livello primario e di livello secondario, soprattutto in prossimità delle zone residenziali che dovranno essere in grado di offrire condizioni favorevoli per lo spostamento a piedi e l’uso della bicicletta. Soltanto come ultima prospettiva dovrebbero essere permesse localizzazioni a una distanza maggiore dal bordo urbano, e sempre all’esterno del green core.
Nella pratica, però, il modello della città a rete decentrata policentrica ha prodotto effetti deludenti, poiché difficilmente si è riuscito a distribuire le molte funzioni primarie e direzionali concentrate nel core, nei centri secondari (Mayor of London 2002; Regio Randstad 2003).
ARCIPELAGHI URBANI
Termine utilizzato per descrivere i fenomeni di profonda riorganizzazione strutturale interna unita a una relativa crescita demografica – quando non addirittura di decrescita – delle metropoli dei paesi industrializzati (Torres 2004; Indovina 2009): “il sistema di Tokyo-Osaka ben difficilmente crescerà oltre gli attuali 70 milioni di abitanti, uniti dalla rete di trasporti rapidi dei treni-proiettile, ma determinerà probabilmente una diluizione sempre più marcata delle funzioni dominanti, oggi concentrate nei due nuclei maggiori, verso i centri satellite delle cinture secondarie” (Faccioli 2009, p. 10).
Terminata la fase in cui le aree centrali hanno funzionato come agenti di qualificazione e organizzazione territoriale, sfruttando la sostanziale stabilità indotta dal proprio ruolo-guida, appaiono contesti e società localizzate in centri minori, aperti a nuove soluzioni produttive o basati su modelli di vita tendenti a obiettivi “minimi” rispetto ai precedenti canoni impostati sulla crescita continua. Le configurazioni distrettuali minori odierne emergono come nuovi soggetti forti su cui si tesse una trama territoriale di diversa complessità, rispetto al modello semplificato della città a rete radiocentrica (Perulli 2007). Gli scenari di sviluppo sono un divenire direttamente connesso con le funzioni maggiormente competitive, che possono localizzarsi in centri molto distanti dal core compatto della città storica. D’altro lato, proprio quest’ultima, da centro primario della produzione di merci e idee, comportamenti e stili di vita, si trasforma in un potente fattore di creazione del nuovo immaginario urbano (D’Aponte 2002; Faccioli 2009).
Il termine, tuttavia, per quanto riferibile a metafore e a luoghi accattivanti, può indurre anche a pensare alla città futura come a “una rete sfilacciata, in cui le tecnologie spingono l’uomo, ora abitante di passaggio, ad aprire passaggi in tutte le direzioni, senza alcuna vocazione finale” (Nancy 1999).
Bibliografia
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