ISSN 1973-9702

04 - SIMULACRI URBANI cop

Simulacri Urbani

 di Fabrizio Esposito

Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova

EXURBIA ED ESURBIO

Il termine exurbia era utilizzato all’inizio degli anni Cinquanta per descrivere tutte quelle “zone semirurali molto lontane dalle città, […] dove gli americani ricchi avevano tenute di campagna” (Spectorsky 1955, p. 299). Questo modello si trasforma nell’esurbio del XXI secolo, forma dispersiva urbana “molto distante dalle metropoli, costituito da case monofamiliari molto grandi che tendono a isolarsi completamente dalla strada, con spazi tra l’una e l’altra più ristretti. […] Anche la gente che ci vive è diversa: mentre le exurbia degli anni cinquanta erano vere e proprie énclaves bianche, i nuovi esurbi sono un mélange di colori e culture, anche se sempre di ceto sociale medio o elevato” (Lyman 2005, p. 74).

Si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di nuclei residenziali progettati nei minimi dettagli da corporation immobiliari che agiscono su elaborate indagini di mercato incentrate sul soddisfacimento di ogni minimo bisogno della middle class americana (dimensione della sala, della cucina e delle camere, numero di bagni, consistenza della moquette, numero di lampioni stradali e alberature d’alto fusto, ecc.), compresi gli aspetti più sottili come le ore massime di pendolarismo che la famiglia è disposta a sopportare per mantenere, comunque, l’impressione di appartenere a una condizione sociale superiore. Inoltre, le compagnie immobiliari progettano volutamente le nuove exurbia secondo morfologie urbane che l’americano medio istintivamente associa a luoghi scevri da pericoli o criminalità: “strade curve, ampi marciapiedi, cul-de-sacs per mantenere il traffico lento e dare un senso di contenimento dello spazio, tutti espedienti per attirare persone e famiglie desiderose di un senso di comunità in un ambiente raccolto, da piccolo centro storico” (Lyman 2005, p. 75).

Negli Stati Uniti, questi insediamenti sorgono in zone non appartenenti ad alcuna municipalità, in contee rurali remote, oppure nascono nelle vicinanze di vecchie cittadine in default economico, cui offrono un gettito fiscale elevato per ripianare il debito. Il processo di crescita, molto spesso, è talmente veloce da fagocitare e sostituire le piccole municipalità consolidate che hanno concesso i lotti edificabili, sino al parossismo: nascono forme urbane chiuse strettamente controllate (“governate”) dalle associazioni dei proprietari, che vietato “cartelli, bambini, coniugi sotto una certa età, animali domestici, parabole satellitari e persino baci della buonanotte sui gradini della porta di casa” (McKenzie 1994, p. 64).

EXOPOLIS

Il termine esurbio o exurbia è stato traslato nell’odierno exopolis, in seguito ad alcune ricerche teoriche incentrate sulla natura dell’Orange County, un agglomerato urbano di 2,5 milioni di abitanti sorto alla metà degli anni ’70 intorno a Los Angeles (Scott, Soja 1996; Soja 1989, 1996; Sorkin 1992; Bridge, Watson 2010). Il termine assume il significato sia di “città esterna”, sia di “città senza cittadinanza”, ed è stato utilizzato per descrivere la sensazione di straniamento che provano gli europei o gli statunitensi della costa orientale “quando visitano città che non sembrano avere la forma della citta, come, appunto, Los Angeles” (Spagnoli 1997, p. 14).

La caratteristica principale dell’exopolis non è morfologica, ma riguarda la suddivisione “del mercato del lavoro, […] in molteplici segmenti regolati da rapporti fortemente squilibrati e da industrie high-tech legate alla produzione di armi e di sistemi di difesa militare” (Soja 1996, p. 243). Exopolis è una città le cui forme sono descrivibili per “scene”, tra loro stridenti: dalle aree a forte componente commerciale o dedicate ai servizi alle persone, qualitativamente gradevoli, alle aree industriali o militari e ai superdormitori, spiacevoli e non attraenti.

In quest’ottica, il termine raccoglie moltissime definizioni e ossimori: outer city, edge city, technopo­les, technoburbs, silicon landscapes, metroplex, post-suburbia. Exopolis è un miscuglio di luoghi urbani, una città senza cittadinanza, che organizza lo spazio e il tempo secondo le necessità immediate, oscillando tra la “disneyficazione” della realtà e le gated communities (Sennett 1974; Young 1990; McKenzie 2006).

SIMULACRI URBANI

Con questo termine erano inizialmente chiamati i grandi parchi a tema statunitensi, nati sulla scia del grande successo di Disneyland. Il termine è trasposto dalle teorie di Alberto Sato e del CIAM, ovvero da quel periodo in cui, nelle scuole di architettura, si era “ossessionati dal voler costruire l’avanguardia della nuova modernità” (Dieste, Gutiérrez 1996, p. 25), ulteriormente influenzato da una particolare narrativa fanta-sociologica (Dick 1964; Sheckley 1968) dove “il reale diviene l’alibi del modello, in un universo retto dal principio della simulazione” (Baudrillard 1979).

Attualmente il termine è utilizzato per indicare i nuovi insediamenti dove è possibile ritrovare l’identità di un centro storico urbano, ma senza i pericoli del mondo reale: piccole città fatte di strade, negozi, ristoranti e teatri, frequentate da gente di ogni età che circola a piedi (Detragiache 2003), il cui apice è forse rappresentato da City Walk, una simulazione di Los Angeles con le riproduzioni in piccolo di Venice e di Santa Monica, senza inquinamento, bande giovanili o mendicanti, visitabile (“fruibile”) alla modica cifra di cinque dollari.

Nei simulacri urbani, l’architettura e l’urbanistica sono concepite come strutture portanti di un racconto tridimensionale in cui la storia passata, i romanzi, i film o i fumetti diventano realtà. Essi propongono simulazioni tridimensionali di luoghi irreali, concretizzando forme urbane effimere o destinate alla finzione scenica. L’artificiosità voluta di questi spazi riunisce in modo esemplare i contenuti e i temi del pensiero urbanistico contemporaneo e il ruolo di queste nuove città come riferimento nel planning americano è oramai riconosciuto, tanto che molte delle nuove urbanizzazioni residenziali statunitensi, da Seaside a Leisure World, disegnate sul master plan disneyano, “rappresentano il punto culminante della concezione urbana contemporanea che ha raggiunto, nel processo di congelamento dell’esistenza, la perfezione: la città è finalmente svuotata di tutte le esperienze e risulta completamente priva di ogni traccia di desiderio, di gioia e di vita autentica” (Balsebre 1997, p. 99).

MALL O SHOPPING MALL

Shopping mall, o più brevemente mall, è un termine che indica la diffusione esplosiva di tutte quelle forme spaziali monofunzionali dedicate esclusivamente allo shopping (Goss 1993; Urry 1995; Deckker 2000).

È tuttavia riduttivo restringere in questa categoria solo i centri commerciali di ambito suburbano. Rientrano in essa, infatti, tutti i luoghi del “consumo del tempo libero”: aeroporti, musei, parchi tematici, grandi biblioteche e campus universitari, aree sportive e ludiche, ovvero tutti quei luoghi dove un certo grado di qualità ambientale è associato immancabilmente alla commercializzazione (Koolhaas 2006). I mall sono “i templi del consumo in cui la gente passeggia, mangia, dorme e passa i weekend” (Koolhaas et al. 2000, p. 12).

Inizialmente si tratta di un semplice scatolone monofunzionale in aree esterne alla città, all’interno del quale operano strategie capaci di selezionare i consumatori in rapporto al ceto e di convogliarli verso i reparti più adatti. In seguito, questi spazi ambiscono a divenire un vero e proprio spazio di vita, protetto e accattivante. Tuttavia, questa rapida proliferazione è accompagnata da due effetti negativi: un drastico calo nel numero delle piccole attività commerciali interne ai centri urbani e l’impossibilità di trasformare gli shopping malls nel nuovo cuore sociale delle periferie, poiché mancanti di tutte le altre funzioni indispensabili a creare una città, ovvero le abitazioni, le scuole, gli uffici e tutti gli altri servizi di base.

Attualmente il mall sta migrando nei centri storici, grazie all’abbassamento dei prezzi delle aree centrali dismesse e alla possibilità di “progettare per frammenti” al di fuori della pianificazione (McCulloch 2014). Ne deriva un curioso effetto boomerang che costringe alla chiusura gli shopping mall situati nelle periferie, prima responsabili di aver azzerato la piccola rete distributiva delle arre centrali urbane, e ora, a loro volta, sostituiti da queste nuove forme, definite city of urban marketing o festival mall (Molteni 2006; Lorenzetto 2013).

Il modello del mall trova una similitudine con il termine della strada-mercato, forma particolare della città diffusa italiana della fine degli anni ’70 (Indovina 2013).

CITY OF URBAN MARKETING O FESTIVAL MALL

Termini utilizzati per descrivere la tendenza di riflusso attuale che tende al recupero dei vecchi nuclei cittadini in chiave di oggetto commerciale, di spettacolo e consumo turistico. Si tratta di “estensioni esteriori del museo, con interi quartieri trasformati in opere d’arte monumentali capaci di innalzare il valore delle merci, materiali ed immateriali, messe in vendita in queste città-museo-supermercato. […] L’intero patrimonio artistico e culturale di queste città è utilizzato come moltiplicatore del valore degli immobili e dei servizi venduti come pacchetto per gli operatori commerciali, turistici, industriali e imprenditoriali” (Ingersoll 2004, p. 43).

In Europa, data l’esistenza di un esteso tessuto formato da numerosi centri storici consolidati, questa tendenza al recupero in chiave mercantile-spettacolare è molto evidente, mentre negli Stati Uniti, al di là di alcune grandi realtà urbane che funzionano come “attrattori” turistici (Taylor 1991, 1994), il termine è spesso utilizzato impropriamente in vece di privatopia (McKenzie 2011).

Alla base di questo fenomeno vi è l’obiettivo di sfruttare le potenzialità storiche ed estetiche delle città compatte per sottrarre flussi turistico-commerciali alle altre metropoli, con il fine ultimo di accaparrarsi la localizzazione delle funzioni superiori: sedi governative nazionali e mondiali, centri direzionali delle major e delle multinazionali, ecc.

Le trasformazioni derivanti da questi episodi di rigenerazione urbana incidono particolarmente sulle pratiche d’uso dello spazio pubblico che si trasforma in spazio “quasi-pubblico”, poiché le aree rigenerate divengono proprietà di coloro che ne hanno concretizzato la trasformazione e che ne controllano la gestione, “avvalendosi della facoltà di escludere persone e attività incompatibili con le attività commerciali: dai buskers (i musicisti ambulanti) ai cani, alle forme di vendita estemporanee degli ambulanti, a qualsiasi forma di manifestazione intrapresa dalla cittadinanza” (URB&COM 2003, p. 29). Come già per i grandi centri commerciali extraurbani, si ripropone anche per le city of urban marketing l’impossibilità di identificarsi come nuovi luoghi della partecipazione civica (Miller 1998).

Se parallelamente alla museificazione dei centri storici si assiste anche all’allontanamento dei suoi residenti, si parla più correttamente di jumble city, traducibile in città bazar od outlet factories (Salzano 2006). Altri autori nominano questi luoghi con un insieme di termini ancor più particolari: fronte del porto o 42^ Strada (COSES 2005).

 

Bibliografia

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