ALLEGORIE BIOLOGICHE
Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova
CITTÀ-ALBERO
Metafora ricorrente che accumuna il processo di crescita urbana allo sviluppo di un “albero” idealizzato (Mumford 1938; Giovannoni 1941), trasformando “la legge di persistenza delle piante in legge di persistenza dell’archetipo urbano individuale” (Lavedan 1936:62).
Con questa metafora, la città è descritta come un albero “soprattutto per la capacità di resistere anche alle più potenti trasformazioni: si può distruggere l’albero, ma dai suoi polloni riemergerà la pianta con tutta la sua vitalità” (Saragosa 2012:25). La metafora sembra reggere se si sostituisce al termine “città” quello di “ecosistema territoriale dell’insediamento umano”, con precise caratteristiche evolutive e proprietà ecologiche (Giacomini 1990).
La maggiore critica a questo approccio che assimila un’entità vivente, l’albero, a un costrutto artificiale umano, la città, ha però conservato l’accostamento tra le parole: albero non come organismo biologico, quanto piuttosto come sistema di organizzazione ideogrammatica di relazioni, imbastite in una struttura aperta, dove le parti sono collegate in maniera incrociata da diversi ordini di relazioni e gli elementi di scala minore interagiscono senza gerarchie inflessibili (Alexander 1965).
Con la crescente crisi ecologica, tuttavia, la metafora è sempre più spesso nuovamente declinata nella forma originaria, recuperando la similitudine tra città e sistemi viventi autopoietici in evoluzione (Magnaghi 1998; Saragosa 2001).
CITTÀ-RIZOMA
Metafora utilizzata per descrivere le città labirintiche fondate sullo smarrimento e divise tra realtà e finzione (Masotti 2012).
È un modello complesso utilizzato dagli studiosi di semantica per sostituire la metafora della città-albero, basata, cioè, su un’organizzazione gerarchica e lineare dei flussi e delle informazioni: “nella città- rizoma non c’è un centro, né un ordine” (Schmidt di Friedberg 2008:11). “A differenza degli alberi o delle loro radici, il rizoma collega un punto qualsiasi con un altro punto qualsiasi, e ciascuno dei suoi tratti non rimanda necessariamente a tratti dello stesso genere, mettendo in gioco regimi di segni molto differenti ed anche stati di non-segni. […]. Rispetto ai sistemi centrici (anche policentrici), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il rizoma è un sistema a-centrico, non gerarchico e non significante” (Deleuze, Guattari 2003:33).
La città-rizoma è una rete che non può essere srotolata, è estensibile all’infinito, senza esterno né interno. In essa il processo di connessione tra nodi è anche un processo continuo di correzione delle connessioni stesse, cosicché la sua struttura cambia in ogni istante, “e ogni volta si potrebbe percorrerla secondo linee diverse, incoraggiando le contraddizioni: se ogni suo nodo può essere connesso con ogni altro suo nodo, da ogni nodo si può pervenire a ogni altro nodo” (Eco 2007:59-60).
Il termine, molto ambiguo, ricorre spesso nelle descrizioni urbane rappresentate come sistemi aperti, percorribile sempre, comunque e dovunque, dove il perdersi acquista il significato di una nuova scoperta, di un incontro imprevedibile (Salazar 2003; Careri 2006).
CITTÀ-FUNGO o VILLE CHAMPIGNON
Termine codificato dalla New Urban History francese (Le Mée 1971; J. Dupaquier 1977; Braudel, 1979; Dupeux 1981; Lepetit 1984, 1988; Verdier 2006) e utilizzato per descrivere gli agglomerati urbani cresciuti tumultuosamente nel 1700 in seguito all’espansione dei nodi di interscambio necessari alla rete di trasporto della ‘posta a cavallo’ nell’area dalla Piccardia al Brabante, passando attraverso il Belgio e la Renania (Arbellot 1973; Heers 1995). In quest’ottica, la nuova città è associata a un organismo saprofita, parassita e ipertrofico che vive a spese degli altri insediamenti.
Il termine è tornato prepotentemente alla ribalta con la crisi dell’industria automobilistica del 2008 che ha investito l’area metropolitana di Detroit e dei grandi laghi tra Stati Uniti e Canada: “il cuore della capitale dell’automobile non è più che una successione di terrains vagues, di case vuote e di macchine sfondate. Un quotidiano locale parla di diciotto mila edifici abbandonati, in alcuni quartieri si è rinunciato a riscuotere le tasse. Poste, comunicazioni e acqua non vengono più forniti o scarseggiano. La società attiva si è trasferita in massa verso le citta-fungo marginali, in cui non ci si contenta più di abitare, di fare i propri acquisti e di proteggere il proprio tempo libero: ci si può anche lavorare, tanto che molte imprese vi trasferiscono le loro sedi, fuggendo i distretti urbani” (Behr 1997:48). In quest’ottica, la città-fungo diventa sinonimo di edge city (Garreau 1991; Petrillo 2000), perdendo il connotato parassitario e aumentando la propria autonomia e indipendenza, ma mantenendo gli aspetti di crescita irrefrenabile, tanto da essere associata alla nube di un’esplosione atomica (Berry 1976).
Città-fungo è, spesso, il tradotto di favelas, callampas, ranchitos, villas miserias, cantegriles, barriadas, tugurios, conventillos, casas de vencidad, ecc., ovvero di tutte le nominazioni con cui si definiscono le bidonville sudamericane (Rouquié 1987) o di altre parti del mondo.
CITTÀ SPUGNA o CITTÀ POROSA o VILLE POREUSE
Termine ambivalente, utilizzato positivamente della scuola intellettuale tedesca di inizio ‘900 (Benjamin, Lacis 1925; Bloch 1925; Sohn-Rethel 1979) per descrivere Napoli e l’Italia del sud in generale (e, per estensione, tutte le città del mondo), oppure, al contrario, per definire le città che assorbono parassitariamente risorse ai territori esterni senza offrire servizi qualificati di ritorno e che perseguono esclusivamente la propria autoconservazione (Crisantino 1990).
Nella prima accezione, la città-spugna o porosa è un amalgama di forme e di significati culturali, di strati di memoria immaginativa, di senso di appropriazione e conoscenza delle proprie radici, della propria storia (Cacciari 1992; Bonomi 2008). Nella seconda, le seppur forte tensione etica di una parte degli abitanti non è capace di assorbire le culture e le forze esterne per tradurle in un progetto di trasformazione valido sul lungo periodo (Becchi Collidà 1980).
BIOCITY o BIOCITTÀ
Metafora utilizzata sempre più comunemente per proporre una soluzione praticabile allo scoppio quasi contemporaneo delle recenti “bolle” mondiali, economica, ambientale ed edilizia (UN 2008).
Il termine, per quanto di lontano conio (Bookchin 1989), mantiene costantemente una profonda critica allo sviluppo economico industriale e neodeterminista (Sassen 2002). La biocittà è l’utopia-guida per ripensare strategie economiche più equilibrate, integrate con le problematiche sociali, ambientali, culturali e umane, verso una ripresa di modelli evolutivi responsabili e consapevoli: “[perseguendo l’ideale della biocittà] sarà possibile immaginare un tipo di sviluppo integrato e un’economia della qualità anziché della genericità, un’economia della differenza anziché dell’omologazione, della misura anziché del consumismo e della dilatazione senza regole, dell’equità anziché della divaricazione della forbice sociale, dei processi evolutivi e partecipati anziché del dominio gerarchico, nei confronti della natura e dell’ambiente così come delle società e degli insediamenti umani, e anche della gioia di vivere delle persone” (Pizziolo 2009:5).
In una visione di questo tipo, il ruolo degli insediamenti umani è di grande rilevanza strategica. Secondo molti fautori della biocity (Agamben 2001; Mance Euclides 2003; Guadagnucci 2007; Paone 2008; Berdini 2008; Bevilacqua 2008), infatti, oggi le città tendono tutte a omologarsi tra di loro, con poche differenze molto appariscenti e standardizzate, che vengono esasperate ai fini di una competizione tra città e città (Amendola 2006). Viceversa, in una visione economica di qualità derivante dalle specificità dei territori, “le diverse modalità di insediamento saranno fondamentali per costruire economie territoriali non in competizione tra loro ma, come avviene nel vivente, da un lato siano in equilibrio omeostatico e dall’altro siano attraversati da flussi e da relazioni secondo andamenti dinamici, lontani dall’equilibrio” (Pizziolo 2009:6).
Tutto ciò si traduce in un’innovazione ecologica urbana nelle pratiche e nei materiali, negli impianti tecnologici e territoriali e nell’uso delle nuove tecnologie informatiche, addirittura delle nanotecnologie e della biogenetica (Franco 2003), ma anche nei confronti delle stesse logiche progettuali e di quelle delle modalità di insediamento, in quanto la città dovrà essere pensata e costruita strutturalmente come un fenomeno ecologico complessivo, inscindibilmente correlata in maniera vitale con il suo territorio, che la alimenta.
Bibliografia
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