Dottorando, Dipartimento di Architettura, Roma Tre
Progetto/i
È mia intenzione proporre in questo testo una lettura sul progetto per lo “spazio pubblico”, sulla sua necessità di confronto, negli ultimi trent’anni almeno, con alcuni fenomeni tipici del contemporaneo quali l’“autonomia” dell’individuo e la frammentarietà fisica di città e territori. Nello specifico mettere in evidenza, in maniera difficilmente esaustiva, alcune possibili risposte nate da questo confronto: da una parte l’interazione fra spazio e pubblico, più o meno attivo, e dall’altra la capacità di rendere fruibili alcune “situazioni scomode” prodotte dalla pratica e/o dalla teoria sulla città moderna e contemporanea (brownfield, scarti, ecc..).
Abbandonare eventuali derive concettuali sullo stato dello spazio pubblico oggi, nelle quali per esempio e possibile intravedere il fiorire di uno spazio pubblico al comparire di un “pubblico” (Vazzoler, 2010), e porre invece l’attenzione su una definizione di spazio pubblico forse più ideale permette qui di evidenziare come la natura aperta di questo particolare tipo di spazio non si riferisca semplicemente all’uso dello spazio stesso ma anche alla progettazione che lo riguarda. Possiamo parlare quindi di progetti per lo “spazio pubblico”, di capacità di attirare sguardi progettuali differenti, indicando così una sorta di “multi-disciplinarità” legata proprio alle caratteristiche di questo tipo di spazio, idealmente “aperto”, condiviso, condivisibile. La multi-disciplinarità avanza l’ipotesi di una lettura pluri-prospettica sul progetto per lo spazio pubblico, prospettive che si sintetizzano entro differenti sguardi tipici delle differenti discipline interessate. In questo testo intendo restituire almeno tre sguardi possibili capaci di raccontare qualcosa sulle risposte, a volte assonanti, al confronto fra spazio, pubblico e città.
Uno
L’opera d’arte contemporanea calata in un contesto sociale trasforma il pubblico in autore in quanto l’artista, attraverso la sua reinterpretazione della realtà, necessita di una controparte che rielabori e condivida i dati forniti (Valtorta, 2006). Scadono le definizioni un tempo inflessibili di artista, opera e pubblico: se è necessaria l’azione di un pubblico allora questo diventa coautore e partecipa alla formazione dell’opera ormai non più semplice prodotto estetico ma processo. Debitori dei ready-made Duchampiani, questi processi artistici sembrano dare grande rilevanza al pubblico e al luogo di fruizione. Secondo Laura Carlini (Carlini, 2008) il rapporto fra lo spazio e l’opera d’arte sembra aver subito variazioni negli ultimi cinquant’anni, un rapporto che si è evoluto in tre fasi: da un’opera d’arte autonoma, chiamata a contribuire all’estetica del sito ma impossibilitata ad interagire con esso (“art-in-public-space” ’65-’75 circa), si è passati ad un’opera d’arte intesa come arredo urbano che partecipa al concepimento e alla realizzazione di spazi urbani coerenti, distaccandosi totalmente dal concetto di autonomia per farsi assimilare totalmente dal sito e superare così lo stile modernista (“art-as public-space” ‘75-‘80 circa), giungendo infine ad un’opera d’arte in cui la partecipazione, il processo collettivo e l’interazione sociale sembrano essere gli obiettivi primari (“art-in-the-public-interest” anni ‘90).
Jochen Gerz: “Monumento contro il fascismo” Hamberg 1986-1993; “Monumento contro il razzismo” Saarbrucken 1993
Ed è proprio sulla scia di questi processi che l’opera dell’artista Jochen Gerz pare rilevante. Nella sua opera Monumento contro il fascismo ad Harburg (‘86-’93) è evidente il necessario coinvolgimento del pubblico: su di un pilastro alto 12 metri gli abitanti del quartiere sono chiamati a porre la propria firma contro il fascismo, raggiunta una certa altezza il pilastro viene fatto sprofondare, fino a quando non rimarrà più visibile in altezza, il monumento scomparirà dopo 7 anni, in ricordo una targa: “Alla fine soltanto noi stessi rimaniamo in piedi contro l’ingiustizia”. Anche il Monumento contro il razzismo a Saarbrucken (1993) è un’opera che fonda la sua essenza sull’azione, piuttosto che su di un prodotto estetico compiuto: segretamente Gerz, assieme agli studenti della città, rimuove le pietre della pavimentazione della piazza centrale del castello (utilizzato ai tempi del Nazismo come sede della Gestapo) per imprimervi i nomi dei cimiteri ebraici scomparsi durante la Seconda Guerra Mondiale, e riporle poi nuovamente sul sito originale col nome rivolto verso il basso. L’aspetto della piazza risulterà inalterato e l’operazione (in seguito comunicata agli amministratori) verrà recepita a posteriori rendendo l’opera d’arte fruibile al pubblico attraverso un nuovo nome della piazza, un’informazione mediatica e il passaparola: solo il pensiero e la conoscenza renderanno possibile la comprensione del nome della piazza, “Piazza del monumento invisibile” (Valtorta, 2006).
Due
La paura per le sorti del nostro pianeta sembra aver modificato la percezione delle cose, del “verde” il nostro rapporto con la “natura”, con il sistema ambientale: sembra essere cambiato il nostro punto di vista estetico sulla natura, allargando l’insieme degli spazi esplorabili e godibili, proponendo un pluralismo paesaggistico e una sostanziale “estetizzazione globale” (Nicolin et al., 2003), per la quale non sembra esserci freno alcuno: infatti, se il paesaggio sembra essere “un’invenzione culturale” (Nicolin et al. 2003), oggi tutti gli spazi in grado di evocare una sorta di naturalità nostalgica posseggono un potenziale intrinseco da potenziare o quantomeno preservare. Questa sensibilità, del “com’è stato trovato”, sembra essere in grado di proporre quindi nuovi scenari, o comunque scenari prima inesplorati, e che oggi pretendono di essere esplorati, o in ogni caso goduti. Alla varietà dei paesaggi si affianca una tematizzazione del pubblico che si fa carico della comprensione di nuovi paesaggi: da un pubblico multiforme, rintracciabile nei contesti urbani, si passa ad una molteplicità di pubblici in quei contesti che concorrono, con un progetto o meno, a rimarcare la sensibilità stessa.
Squint/Opera “Flooded London 2090”; Ilex The gallery BF15
Questa tendenza ambientalista si riflette anche in contesti urbani, determinando immagini dominate dal “verde” (spazi più verdi, edifici più verdi..). In questo caso è interessante la ridondanza di temi e figure prodotte da diversi attori. Per esempio: da una parte Squint/Opera in Flooded London 2090 presenta scenari urbani post apocalittici per una Londra sommersa dalle acque e invasa dalla vegetazione, dall’altra parte il gruppo di progettazione paesaggistica Ilex nell’esibizione The gallery BF15 (Lione 2000) sembra deciso a invadere con la vegetazione lo spazio aperto dei contesti urbani consolidati. Entrambi i casi sembrano muoversi dalla particolare attenzione per gli aspetti ambientali, risultato: la vegetazione che invade luoghi altrimenti riconosciuti. La differenza risiede nel messaggio e nelle modalità con cui questo risultato viene tradotto: in Ilex la natura entra nelle nostre città attraverso un progetto, si tratta quindi di una natura invadente ma controllata che regala in ogni caso un’emozione estetica, in Squint/Opera la decadenza delle strutture urbane e della società globale sembra aver lasciato lo spazio all’invasione incontrollata della vegetazione, una natura selvaggia, scenografie dalla cornice accattivante che nascondono le più recondite paure dell’uomo, per riuscire forse ad esorcizzarle e spingere le società a muoversi verso nuovi orizzonti.
Tre
Cristina Bianchetti sostiene (Bianchetti, 2011) che, a differenza del progetto per lo spazio pubblico moderno, sul finire del secolo scorso il progetto non rappresenta più il pubblico con una superficie attraversabile, e aggiungerei isotropa (Corboz, 1993), ma con una superficie confortevole, più complessa entro la quale apprezzare i caratteri sociali, oltre quelli materiali, per godere dell’essere un corpo in mezzo ad altri corpi in una dimensione non solo estetizzante. Se questa particolare attenzione per il comfort in alcune esperienze si risolve In un adattamento del progetto ai bisogni del pubblico (si veda per esempio il “Progetto di suolo” di Secchi) in altre è evidente la necessità del progetto a cercare un’interazione diretta e continua con il pubblico. Lo spazio pubblico intende stimolare reazioni fisiche o emotive nel fruitore. Anche qui come nei processi di produzione artistica il pubblico diventa attore protagonista del progetto. Valga come esempio l’ormai classico Schouwburgplein a Rotterdam dei West8 (1995) dove i diversi elementi posti in gioco si modellano in base alle esigenze dell’utente capace così di plasmare diverse configurazioni dello spazio.
west 8, Schouwburgplein a Rotterdam, 1995
Questa esperienza è utilizzata da Charles Waldhein (Waldhein, 2006), per descrivere un possibile cambio di paradigma entro il progetto della città e del territorio negli anni ‘90. Il Landscape Urbanism è un movimento che intende orientare il lavoro di architetti, urbanisti e paesaggisti in Europa e Stati Uniti, ritiene impossibile la distinzione fra città e campagna (a differenza del New Urbanism) e intende migliorare l’esperienza urbana organizzando la città contemporanea attraverso gli spazi in-between e il paesaggio (Gabellini, 2010). Le sue origini si possono rintracciare sicuramente in un’aumentata consapevolezza ambientale ma anche nelle critiche all’architettura e alla pianificazione modernista da parte della cultura postmoderna. Dagli anni ‘60, in particolare dalla crisi internazionale del ‘72, negli Stati Uniti e sul continente europeo, si è assistito ad una reazione romantica al Movimento Moderno, ai contenuti della Carta d’Atene (non tanto ai dogmi quanto ai risultati prodotti – Ellin, 1999), attraverso esperienze che hanno posto al centro dell’attenzione la forma della città tradizionale prima dell’avvento dell’industrializzazione, solo per citare alcuni nomi: Rossi e Krier in Europa, Andrés Duany e Elizabeth Plater-Zyberk, New Urbanism, negli Stati Uniti (Ellin, 1999). Sempre entro una cornice di reazione postmoderna il Landscape Urbanism non tenta di ricostruire un ordine formale o di valori perduti ma pone in primo piano il paesaggio come infrastruttura e modello processuale (non semplicemente estetico) utilizzato per attivare gli spazi e produrre effetti urbani bypassando le tradizionali tecniche di progettazione dello spazio, attraverso l’organizzazione di una superficie orizzontale in un territorio caratterizzato da mutevolezza e dispersione riconosciute. Entro questo paradigma si accetta il territorio contemporaneo nella sua condizione d’indeterminatezza, pure formale, e si lavora anche entro i suoi materiali di scarto: spazi residuali, terreni vaghi e abbandonati dal processo di post-industrializzazione e globalizzazione, ecc.. Proprio in questi spazi possiamo ricordare molti di quei progetti entro cui Waldhein riconosce le potenzialità del paesaggio di operare come un modello per i processi di trasformazione urbana, per esempio Parc de la Villette, Downsview Park, Borneo en Sporenburg, ecc..:
“Through their deployment of postmodern ideas of open-endedness and indeterminancy, Tschumi’s and Koolhaas’s projects for Parc de la Villette signaled the role that landscape would come to play as a medium through which to articulate a postmodern urbanism: layered, non-hierarchical, flexible, and strategic. Both schemes offered a nascent form of landscape urbanism, constructing a horizontal field of infrastructure that accomodate all sorts of urban activities, planned and unplanned, imagined and unimagined, over time.” (Waldhein, 2006; p.41)
Bibliografia
Bianchetti C. (2011). Il Novecento è davvero finito. Donzelli editore. Roma.
Carlini L. (2008). Arte e città, politiche e conflitti, in Carlini L., Di Biagi P., Safred L., a cura di, Arte e città. Opere e interventi artistici nello spazio urbano. EUT. Trieste.
Corboz A. (1993). Avete detto spazio?, in Casabella n.597-598.
Ellin N. (1999). Postmodern Urbanism. Princeton Architectural Press. New York.
Gabellini P. (2010). Fare urbanistica. Esperienze, comunicazione, memoria. Carocci. Roma.
Nicolin P., Repishti F. (2003). Dizionario dei nuovi paesaggisti. Skira. Milano.
Secchi B. (2006). Progetto di suolo 2, in Aymonimo A., a cura di, Spazi pubblici contemporanei. Architettura a volume zero. Skira. Milano.
Valtorta R. (2006). Artista/opera/pubblico: un processo osmotico, in Csillaghy A., Vianello A.,(a cura di), Multiverso Flessibilità. Forum. Udine.
Vazzoler N. (2010). Nuovi spazi pubblici? Forme e usi dei luoghi “del pubblico” nella città contemporanea, in Annunziata S. e De Leo D. (a cura di), Atti della XIII Conferenza della Società Italiana degli Urbanisti, Città e crisi globale: clima, sviluppo e convivenza, in Planum, The European Journal of Planning on-line (ISSN 1723-0993).
Waldhein C.,a cura di, (2006). The Landscape Urbanism Reader. Princeton Architectural Press. New York.