di Giovanni Caudo,
Università degli Studi Roma Tre
Scritto in occasione del “Forum per l’Agenda urbana” che si è svolto il 24 Gennaio presso il Senato e organizzato dal Consiglio italiano per le scienze sociali. Scarica gli atti del convegno.
0. Il Libro bianco sul governo delle città italiane del Consiglio Italiano di Scienze Sociali (CSS); un ordine del giorno della Camera che impegna il governo ad avviare una politica per le città e istituisce l’Agenda urbana nazionale; poi il governo Monti con il programma Smart Cities promosso dal ministro Profumo, e il “Piano Città”, voluto dal ministro Passera e promosso dall’ANCE e dal Censis. E, ancora il governo, che riprendendo l’ordine del giorno votato dal parlamento, istituisce il CIPU, il Comitato interministeriale per le politiche urbane e lo affida al ministro Fabrizio Barca. Le città sono tornate ad avere l’attenzione da parte della politica dopo che per anni ne erano state escluse. Esclusione che costituiva un paradosso sotto molti punti di vista: quello storico-culturale, perché la storia del nostro Paese è intrinsecamente legata a quella delle sue città e dei suoi comuni; quello sociale, perché ormai la stragrande maggioranza degli italiani vive la condizione urbana, anche quando ha scelto di risiedere in piccoli comuni o borghi, essendo questi ultimi nodi di una rete che “abita” tutto il territorio; e quello economico. La ricchezza principale del nostro paese è, ormai, la città con i suoi “giacimenti” di storia, di patrimoni artistici e ancora di produzione immateriale, di ricerca e di innovazione. Le politiche della sicurezza e il dibattito sul federalismo municipale hanno dominato il discorso pubblico ed evitato che si affrontassero le questioni urbane entro un quadro di respiro strategico.
L’importanza di una politica nazionale per le città costituisce ormai un’acquisizione condivisa, ma proprio per questo è importante ora chiedersi in che modo questa attenzione può tradursi in azioni e in che rapporto può stare con le competenze del governo centrale, soprattutto alla luce della modifiche costituzionali apportate nel 2001 e ai richiami alle forme di federalismo, seppure frammentarie e incerte.
Lo scenario auspicabile, anche guardando agli altri paesi europei, è di andare controcorrente rispetto alla progressiva erosione di ruolo e di competenze del governo centrale che ha caratterizzato i primi dieci anni del nuovo secolo. Bisogna costruire una possibilità per il governo centrale di instaurare un rapporto con le città che non si riduca agli aspetti meramente finanziari, ma che rimetta il territorio, e la sua progettualità, dentro ai processi di sviluppo. Non si tratta di assumere politiche centralistiche da attuare poi a cascata negli altri livelli di governo; peraltro questo non è più possibile dopo la modifica del titolo V della Costituzione. Occorre pensare a un ruolo di regia e di accompagnamento capace di accogliere gli interventi che provengono dai territori affiancandovi azioni politiche, competenze specifiche, messa in rete, coordinamento e integrazione di risorse economiche. La forma potrebbe essere quella delle agency pubbliche ad alto contenuto tecnico.
Andiamo con ordine e ripercorriamo, anche se sinteticamente, come si è strutturato in Italia il rapporto tra Città e Stato.
1. Il punto di partenza immediato che sovviene è l’istituzione del Ministero per i problemi delle Aree Urbane, era il 1987, Governo Craxi e ministro Carlo Tognoli (già sindaco di Milano). Un ministero senza portafoglio che è rimasto nella memoria soprattutto per la legge Tognoli, la 122 del 1990 sulla dotazione di parcheggi nelle aree urbane. La comparsa delle aree urbane nella compagine di governo, seppure in un ruolo non di primo piano, fu influenzata dagli scenari nazionali, come l’affermazione delle aree metropolitane istituite nel 1990. Quell’attenzione risentì però anche della crescente rilevanza che le città stavano assumendo a scala internazionale. La competizione economica si trasferiva dai sistemi produttivi e industriali alle città e si affermava la competizione urbana come paradigma del confronto tra “mercati” sovranazionali. Le città globali si affermarono a partire da quella condizione e sempre di più il mondo fu descritto come un Mondo di Città. La prima edizione del fortunato libro di Saskia Sassen, “The global cities”, che descriveva compiutamente questa trasformazione è del 1991.
L’istituzione del Ministero delle Aree Urbane, anche se non ebbe i caratteri di una vera innovazione, colse l’importanza del rapporto tra città e sviluppo economico e fu consapevole del rapporto tra Città e Stato. In realtà non si trattò di un vero e proprio Ministero, per l’istituzione del quale si pensò di predisporre un disegno di legge che però non vide mai la luce, ma rimase, anche negli anni a venire, solo un Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio dei ministri con funzioni essenzialmente di coordinamento e di raccordo per le iniziative intraprese dai ministeri che avevano rilevanza per le politiche urbane.
Molta parte del ruolo svolto dal Dipartimento Aree urbane in quegli anni fu legato all’approvazione e all’attuazione della legge 386/90, la legge su Roma Capitale, proposta e voluta da Antonio Cederna. Una legge che nel primo articolo elenca gli obiettivi di sviluppo della città di Roma, dal parco dell’Appia Antica, al Sistema direzionale orientale alla promozione del sistema universitario e della ricerca e, ancora, al polo europeo dell’industria, dello spettacolo e della comunicazione. Obiettivi che furono ritenuti di “preminente interesse nazionale” perché “funzionali all’assolvimento da parte della città di Roma del ruolo di Capitale della Repubblica”. L’attuazione della legge fu affidata a una commissione per Roma Capitale istituita proprio presso il Dipartimento per i problemi delle Aree Urbane. Si trattò di un fatto importante nell’evoluzione del rapporto tra Città e Stato, che probabilmente andò anche oltre le intenzioni dei protagonisti. La principale novità non fu nella legge – una legge speciale per una città c’era già stata e ben prima di allora, nel 1973, la legge 171 per gli “Interventi per la salvaguardia di Venezia” – ma nel riferimento al Dipartimento presso la Presidenza del Consiglio e non più al Ministero dei Lavori Pubblici. Cominciò allora, o forse semplicemente si sancì qualcosa che era già in essere, la progressiva marginalizzazione del Ministero dei lavori pubblici dalle questioni urbane. Il riferimento alla legge speciale per Venezia aiuta a comprendere meglio questo passaggio: in quella legge il principale attore era ancora il Ministero cui competeva, tra le altre cose, di fissare gli indirizzi cui doveva attenersi il Piano Comprensoriale e a cui dovevano adeguarsi gli strumenti urbanistici dei comuni. Dentro al ministero la competenza in materia era attribuita alla Dicoter, Dipartimento coordinamento territoriale. Un luogo istituzionalmente importante per tutte le vicende che hanno riguardato il territorio e le città a partire dal dopoguerra. Era l’ufficio cui competeva, fino alla formazione delle Regioni, l’approvazione dei piani regolatori generali dei comuni; era l’ufficio che, sotto la direzione di Michele Martuscielli, avviò l’indagine sulla frana di Agrigento da cui scaturì l’impulso per le leggi urbanistiche che dovevano porre rimedio allo sviluppo urbano sregolato e all’uso dissennato del territorio. Senza poter ripercorrere in dettaglio le vicende susseguitesi, quello che qui interessa segnalare è che negli anni Novanta si cominciò a voltare pagina rispetto a quella stagione e si modificò l’attribuzione di poteri e di competenze nel rapporto tra Stato e Città.
2. Negli anni successivi la natura di questa “convivenza” non ha avuto modo di essere chiarita. Determinazioni parziali si sono succedute con l’esito di aver riconfigurato, in modo spesso casuale, le attribuzioni di competenze in materia di politiche urbane. Nel 1997 con la legge 59, che conferiva funzioni e mansioni alla Regioni e agli Enti locali e che riformava la pubblica amministrazione, si operò un riordino dei compiti operativi e gestionali della Presidenza del Consiglio (decreto legislativo, 30 Luglio 1999, n.303) e si stabiliva che le Aree Urbane – insieme alla commissione Reggio Calabria e quella per il risanamento della Torre di Pisa – venissero trasferite al Ministero dei lavori pubblici “in quanto non riconducibili alle autonome funzioni di impulso, indirizzo e coordinamento del Presidente”. Ancora oggi le Aree Urbane compaiono tra le competenze del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti. L’esaurimento del ruolo del Dipartimento Aree Urbane in seno alla Presidenza del Consiglio è testimoniato anche dagli atti assunti in quella fase: uno degli ultimi, la direttiva emanata il 3 marzo 1999, riguardava la “Razionale sistemazione nel sottosuolo degli impianti tecnologici” e forniva prescrizioni su come procedere alla realizzazione degli scavi per la posa di impianti al fine di ridurre i disagi ai cittadini e alle attività commerciali. Ciò che stupisce è che nessun ministero avesse competenze “ordinarie” sull’argomento.
Il trasferimento delle politiche urbane al Ministero dei lavori pubblici non fu accompagnato da un riordino organico delle attribuzioni e delle competenze e risultò pertanto come una cancellazione delle stesse dalle mansioni ministeriali. Peraltro una parte delle politiche che riguardano il territorio, quelle più direttamente legate allo sviluppo economico, rimasero in carico alla presidenza del Consiglio e in particolare al Dipartimento per lo sviluppo delle economie territoriali (Dset). Dipartimento le cui competenze e funzioni sono state ridefinite di recente con un decreto del Segretario della Presidenza del Consiglio del 16 Giugno 2011 con cui si stabilisce che il Dipartimento “è la struttura di supporto al presidente del Consiglio dei Ministri che opera nell’area funzionale relativa alla promozione ed al coordinamento delle politiche e delle attività finalizzate allo sviluppo economico dei territori”. Il focus principale del Dipartimento è orientato alla conoscenza delle situazioni economiche ed occupazionali presenti sul territorio anche al fine di proporre “programmi di interventi infrastrutturali e produttivi, volti a favorire lo sviluppo dei territori ovvero a superare le crisi d’area ed aziendali.”
Dovendo ricostruire, seppure in termini generali, l’insieme dei soggetti che a livello del governo centrale hanno oggi competenze o attribuzioni che incidono più o meno direttamente sul tema delle aree urbane, possiamo citare:
– la direzione generale per lo sviluppo del territorio, la programmazione ed i progetti internazionali, la ex Dicoter di cui abbiamo già detto, presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
– il Dipartimento per lo sviluppo delle economie territoriali, il Dset di cui sopra, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri;
– il Comitato interministeriale per la programmazione economica, il Cipe, che ha competenze per l’attuazione del programma di infrastrutture strategiche e nell’allocazione di risorse a seguito di intese e di programmi di natura negoziale tra i diversi enti e istituzioni;
– il Dipartimento per lo sviluppo e la coesione economica, di recente legato al Ministero per la coesione, che ha competenze importanti per quanto riguarda i fondi comunitari per le aree sottoutilizzate e a cui compete buona parte della trattativa con l’Unione Europea per la fase di programmazione 2013-2020;
– il Ministero del lavoro e delle politiche sociali che ha competenze sulle questioni connesse all’emergenza abitativa;
– il Ministero dell’interno che ha competenze sulla sicurezza urbana, sugli sfratti e sugli immigrati;
– il Ministero dell’ambiente con le politiche sulla mobilità sostenibile e sulla riconversione ecologica degli edifici;
– il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca con il programma Smart Cities.
Un elenco necessariamente incompleto al quale occorre aggiungere la Conferenza Stato-Città, un organo collegiale di raccordo istituzionale permanente e di confronto la cui istituzione (DPCM 2 luglio 1996) può essere considerata un contributo nella direzione di una politica nazionale per le città.
3. Nel corso del 2012 a questo elenco si sono aggiunti altri “luoghi” di decisione e di coordinamento sulle politiche urbane. Il 7 giugno del 2012 su iniziativa dei parlamentari La Loggia, Tabacci, Tocci, Lanzillotta, Causi, Lolli, Martella, Morassut è stata presentata una proposta di legge per l’Istituzione del Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU). La proposta seguiva l’accoglimento di due ordini del giorno, di identico testo, sulle politiche urbane presentate nel corso della seduta della Camera dei Deputati del 14 settembre del 2011[1]. Gli ordini del giorno impegnano il Governo a: 1) predisporre un’Agenda Urbana nazionale, in coerenza con quella proposta dalla Commissione europea per la politica di coesione 2013-2020, aggiornata periodicamente nel suo stato di attuazione attraverso gli strumenti annuali della programmazione e del bilancio (Documento di economia e finanza, Programma nazionale di riforma, legge di stabilità); 2) costituire un Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane, affidando una delega specifica a un membro del Governo; 3) favorire e promuovere l’adozione di specifici provvedimenti normativi e programmi di azione specificamente rivolti alle città nei diversi campi (istituzioni e democrazia urbana; autonomia finanziaria locale; politiche per l’eguaglianza di genere; lavoro e sviluppo locale; welfare, immigrazione e sicurezza urbana; governo del territorio; economia verde; infrastrutture e mobilità; sviluppo digitale ed economia della conoscenza; cultura). L’intento della proposta di legge non è l’istituzione di un nuovo Ministero o di un nuovo Dipartimento.[2] Infatti, il primo comma della proposta di legge chiarisce che: “Al fine di coordinare le politiche urbane attuate dalle amministrazioni centrali interessate e di concertarle con le Regioni e le autonomie locali, nella prospettiva della crescita, dell’inclusione sociale e della coesione territoriale, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è istituito il Comitato Interministeriale per le Politiche Urbane (CIPU)”. I cinque commi dell’articolato della proposta di legge vengono fatti propri dal Governo attraverso l’accoglimento di un emendamento diventato poi l’art. 12bis del decreto convertito nella legge n.134/2012, il cosiddetto Decreto sviluppo. Il 4 ottobre del 2012 il presidente del Consiglio Monti interviene alla riunione dell’Intergruppo parlamentare che si svolge a Palazzo Marini, presso la Camera dei Deputati, in cui viene presentata l’Agenda Urbana attribuendo al Ministro Fabrizio Barca il compito di coordinarne la stesura. Il Presidente Monti nel corso dell’incontro ha tenuto a sottolineare che le città non possono essere viste come un problema ma “un’opportunità che potrà contribuire a risolvere molti altri problemi”.
Nella stessa legge, la n. 134 del 7 agosto del 2012, all’articolo 12, è invece normato il Piano nazionale per le Città attuato dal viceministro alle Infrastrutture e Trasporti Mario Ciaccia su proposta dell’ANCE e del Censis che lo presentarono nel corso di un convegno il 3 aprile 2012. Un Piano che, come disse il Ministro Corrado Passera, intervenendo al suddetto convegno, ha un significato principalmente di tipo economico e perciò destinato ad attivare risorse nel settore edilizio. Il Piano è dedicato alla riqualificazione di aree urbane e in particolare di aree degradate e si attiva attraverso la presentazione di proposte elaborate dai Comuni alla Cabina di Regia appositamente costituita presso il MIT, all’ANCI è invece attribuito il ruolo di raccogliere e classificare le proposte. Si stabilisce quindi un collegamento diretto tra Comuni e Governo sulla base della coerenza della progettualità con le finalità del Piano, che però sono descritte in modo essenziale e in alcuni casi di difficile parametrizzazione ai fini della valutazione delle proposte. Le risorse stanziate per il Piano, appena 224 milioni di euro, sono quasi nulla in rapporto ai fabbisogni delle città. Eppure l’attenzione dedicata dai media al Piano è stata particolarmente elevata. Se si dipana la nebbia mediatica e l’eccessiva strumentalità anticiclica che ancora si attribuisce al settore edilizio, resta la riproposizione della potestà del governo centrale nella promozione di iniziative progettuali di rigenerazione urbana. Il 5 ottobre 2012, alla scadenza fissata per la presentazione delle proposte, l’ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni, ne riceve in totale 446. La copertura territoriale è ampia; sono interessate tutte le Regioni, alcune delle quali sono particolarmente ricche di proposte: 74 in Campania, 50 in Puglia, 40 in Sicilia, 35 nelle Marche, 32 nel Lazio e Calabria, 27 in Lombardia, 25 in Abruzzo, 21 in Emilia Romagna, 20 in Piemonte, 17 in Veneto, 14 in Liguria, 11 in Friuli Venezia Giulia, 9 in Umbria, 8 in Sardegna e in Basilicata, 6 in Molise e una in Trentino. La mole di proposte pervenute e la scarsità di risorse economiche iniziali ha ulteriormente sottolineato l’importanza del ruolo attribuito alla Cabina di Regia che diventa non solo il luogo per la selezione dei progetti ma anche il luogo dove può avvenire l’integrazione di nuove risorse economiche messe a disposizione dai Ministeri e dagli altri soggetti che partecipano ai lavori. Comunque si concludano i lavori della Cabina di Regia (è realistico che in questa fase si potranno finanziare un numero di progetti contenuto nell’ordine di qualche decina), resta la rilevanza di una banca dati progettuale consistente a cui attingere per dare seguito al Piano nazionale per le Città e anche per avviare con le Regioni una fase di programmazione.
4. Dalla ricognizione condotta, emerge che in questi ultimi venti anni lo scenario istituzionale e, anche quello organizzativo, delle politiche urbane risulta frammentato. Pertanto il primo passo necessario per dare di nuovo centralità a una politica per le città è il riordino dei ruoli e delle competenze. Non si tratta di una questione semplice specie in un paese dove è difficile intervenire con riforme organiche e spesso anche con interventi di semplice razionalità organizzativa. Ma sarà inevitabile, altrimenti continueranno a susseguirsi interventi che risulteranno insufficienti dinanzi alla rilevanza della “questione urbana”. E’ necessario avviare “il riordino” muovendo da una seconda importante acquisizione: la formulazione delle politiche urbane non è di competenza del governo centrale, o almeno non solo. Non si tratta di costituire un altro luogo di analisi e di costruzione di scenari. Per quanto queste attività rimangano decisive, oggi esse sono prerogativa, da una parte, di “istituzioni” europee e, dall’altra, di istituzioni “locali”. Al governo centrale spetta invece un compito più difficile: fare da tramite tra i diversi livelli istituzionali, e anche tra i diversi luoghi dove si costruiscono decisioni e scenari, e, ancora più importante, costituire dei luoghi che possano accompagnare la progettualità, valutarla, e sulla quale integrare risorse economiche e competenze.
L’attività di Regia e di coordinamento, il ruolo di indirizzo e l’attribuzione di priorità tematiche di intervento, in collegamento con le priorità dettate a livello europeo, emergono come i contorni di un possibile ruolo del governo nazionale nelle Politiche urbane. Le città possono tornare così al centro dell’agenda politica nazionale e contrastare il clima “culturale” maturato in questo primo decennio del secolo nuovo che ha portato a una “mistificazione” della questione urbana. Le politiche della sicurezza da una parte e il dibattito sul federalismo municipale, dall’altro, hanno dominato il discorso pubblico e hanno evitato che si affrontassero le questioni urbane entro a un quadro di respiro strategico che ne evidenziasse l’interesse nazionale dinanzi ai cambiamenti che le città hanno registrato nell’ultimo ventennio.
Da evidenziare è anche ciò che i Comuni hanno fatto in tema di politiche urbane: mentre si toglievano loro risorse importanti e contemporaneamente li si caricava di nuove funzioni e competenze, hanno sperimentato e maturato approcci anche innovativi nel sancire il passaggio dal paradigma della città dell’espansione a quello della trasformazione della città costruita. Si è compreso che trasformare la città costruita è complicato, che le regole sono necessarie per dare certezza agli stessi operatori economici e per assicurare la coerenza delle singole trasformazioni con la città; si è compreso che gli ostacoli che le imprese e i Comuni hanno oggi dinanzi non si annidano nella rigidità delle regole ma sono di altra natura: il sistema fiscale ad esempio che favorisce ancora la nuova edificazione. C’è bisogno di accompagnare le città con il loro protagonismo nella definizione di politiche urbane orientate alla rigenerazione ed è su questa base che bisognerebbe ricostruire il compito del governo centrale.
Se si volesse andare in questa direzione e facendo riferimento alla configurazione organizzativa e istituzionale che si è affastellata nel tempo, alle priorità dell’intervento di trasformazione nel già costruito, all’ineluttabilità di un lavoro di coordinamento e di integrazione tra i diversi uffici e Ministeri e tra le istituzioni locali, si dovrebbe pensare alla costituzione di una Agenzia nazionale per la rigenerazione urbana.
Si potrebbe immaginare di collocarla presso la Presidenza del Consiglio, non solo per ridare centralità alle politiche urbane ma soprattutto per marcare il ruolo di coordinamento esecutivo, da condurre al più alto livello istituzionale, tra i diversi soggetti (Ministeri, Enti locali, Cassa Depositi e Prestiti, Enti pubblici,…) che possono essere coinvolti nell’attività dell’Agenzia. In essa potrebbe confluire l’esperienza della Cabina di Regia attivata per il Piano Nazionale per le Città e le prerogative attribuite al CIPU. Un’agenzia con un compito preciso: la programmazione pluriennale dell’attività di stimolo e di finanziamento di progetti di trasformazione urbana che possa dare continuità di risposte alle aspettative dei Comuni.
L’Agenzia per la rigenerazione urbana nascerebbe dall’attribuzione e dalla concentrazione di competenze che sono oggi frammentate e disperse in diversi “luoghi istituzionali” e avrebbe il compito di assicurare la rigenerazione di ambiti urbani degradati e da riqualificare contrastando l’ulteriore consumo di suolo. Avrebbe inoltre il compito di formulare un quadro organico di interventi sulla fiscalità, sul credito e sul quadro normativo per orientarli a favore della trasformazione dell’esistente, della ristrutturazione e della sostituzione. Oltre alla promozione di progetti e alla integrazione di risorse dovrebbe facilitare il dialogo tra obiettivi di carattere strategico nazionale e le priorità alla scala locale. Potrebbe contribuire a formare una visione condivisa e coerente tra i diversi soggetti coinvolti negli interventi di trasformazione urbana, assicurando anche il confronto con i privati, e promuovere il miglior utilizzo delle risorse pubbliche, compresi gli immobili pubblici. Avrebbe infine il compito di valutare i progetti e di accompagnarne l’attuazione promuovendo dei contratti di trasformazione urbana.
I vantaggi di una proposta di questo genere non mancherebbero a cominciare dal merito di fermare il proliferare casuale di iniziative e di affrontare con rinnovata consapevolezza la trasformazione del rapporto tra Città e Stato. Quello che non si può fare è fare finta che basti togliere altre regole, favorire gli incentivi urbanistici e far fare al mercato. E’ esattamente ciò che è successo in questi ultimi venti anni e il disastro è sotto gli occhi di tutti. Cresce l’Italia se cresce un nuovo patto sociale tra la Città dei cittadini, il governo della cosa pubblica e chi “produce” ricchezza dalla e nella città.
[1] Le iniziative parlamentari sono state promosse dall’Intergruppo parlamentare per l’Agenda urbana composto da una cinquantina di senatori e deputati dei diversi schieramenti politici.
[2] Il riferimento usato dai proponenti è al Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIACE) istituito dall’articolo 2 della legge n.11 del 4 febbraio 2005.