ISSN 1973-9702

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NUOVE CAMPAGNE

di Fabrizio Esposito

Architetto e Ph.D in Tecnica urbanistica, DSA – Dipartimento di Scienza dell’Architettura, Scuola Politecnica di Genova

CAMPAGNA URBANA

Termine ossimorico introdotto dall’agronomo francese Pierre Donadieu, paesaggio spurio dove “si stanno delineando indizi di nuove ecologie tra territorio e società, in parte dipendenti dalla cultu¬ra urbana e da quella rurale, ma per molti aspetti portatrici di una proposta inedita di sostenibilità e di nuove forme di spazialità” (Mininni 2005:8).
Per Donadieu, le campagne intorno alle città sono i luoghi più instabili e difficili da interpretare, oltre che quelli maggiormente investiti dai processi di trasformazione. Eppure, le aree agricole continuano ad essere una campagna attiva e produttiva, che propone forme ed econo¬mie del mondo rurale, ma che è anche attraversata dal fermento di at¬tività innovative e creative che dipendono dalla prossimità urbana, assolvendo in tal modo al bisogno di natura e di spazi per il loisir e il tempo libero dei cittadini. Questo spazio non sembra produrre eccessiva mar¬ginalità perché è la struttura residuale della campagna che ne determina la forma.
L’ipotesi di Donadieu è che lo spazio agricolo periurbano sia abitato da una società che combina pratiche di cittadini e contadini dalle confu¬se biografie e che chiede di partecipare alla definizione dello spazio urbano. I suoi abitanti, infatti, pur non volendo rinunciare alla città, scelgono di viverne fuori, prediligendo un maggiore contatto con la natura. Donadieu riconosce che questo spazio non è oggetto di un progetto né da parte della città né da parte delle politiche di gestione dello spazio rurale, perché soffre di un deficit di attribuzione di competenze e perché non si è suffi¬cientemente educati a riconoscerlo o attrezzati ad interpretarlo (Donadieu 2006; Palazzo 2005; Osservatorio Nomade/Stalker 2007).
Tuttavia, per quanto Donadieu consideri come centrali gli “spazi agricoli della periurbanità” (Donadieu 2006:66), schiaccia l’argomento quasi esclusivamente sul tema della produttività agricola, sino alla parossistica definizione delle varie tipologie di “agricoltori periurbani” (l’hobby farmer che vive la campagna nel tempo liberato del lavoro; il farmer no farm, ovvero l’agricoltore imprenditore che non necessariamente risiede in campagna ma la coltiva; l’ur¬ban no farm, un cittadino che vive la campagna per diletto o per ne¬cessità; ecc.).
La tesi di Donadieu è comunque profondamente progettuale: la campagna urbana è un futuro di nuova “città più urbana e più rurale” che si genera coerentemente a partire dalle forme derivate dall’organizzazione agraria (orditura di campi, sistemi di irrigazione, terrazzamenti e dissodamenti, semine e raccolti, convivialità e socialità), meticciate da una popolazione urbana che le occupa per abitarlo, trasformandole in un oggetto di costruzione: “la campagna urbana è il prodotto di un’esperienza di abitabilità che rifonda i codici precedentemente acquisiti” (Mininni 2005:21).

ECO-VILLAGGI

Per eco-villaggio si intende “un centro abitato moderno dove l’uomo vive in armonia e cooperazione con la natura, sperimentando nuove tecnologie e nuove abilità per creare un modo di vivere più sostenibile, pacifico e diverso” (Gilman, Gilman 1991:27).
Un eco-villaggio è tale se presenta alcuni elementi imprescindibili: una produzione di beni e alimenti ambientalmente sostenibile; edifici realizzati con processi costruttivi ecologici; scelte sul futuro della comunità insediata prese in comune; presenza di spazi per la crescita personale; celebrare alcuni rituali in comune (Jackson, Svensson 2002). In questa definizione, quindi, rientrano esperienze disparate come i duemila villaggi sostenibili della regione del Sarvodaya, in Sri Lanka, la setta di Damanhur, i piccoli villaggi rurali di Gaia Asociación in Argentina e Huehuecoyotl in Messico, oltre a progetti urbani come il Los Angeles Eco-Village e Christiania, a Copenhagen (Dawson 2006; Litfin 2013). Il termine, spesso, è declinato come urban/city farms (Van Schyndel Kasper 2008).

CAMPAGNA ABITATA

Termine coniato per designare “gli spazi della dispersione dove l’uomo tende a realizzare l’aspirazione di abitare urbanamente la campagna” (Esposito 2007, 2011, 2013). Il termine descrive la comparsa di una nuova for¬ma di organizzazione urbana, caratterizzata da nuovi modi di abitare e di rapportarsi con il territorio, del tutto diversa da quella fatta registrare sino ad oggi, dove l’intrecciarsi di specifiche condizioni endogene rurali con nuove spinte esogene di stampo urbano sembra articolare traiettorie di sviluppo differenti da quella generalmente ac¬cettata, basata sul mercato e da sempre conformante le traiettorie evolutive del territorio e dei connotati delle città.
Nella campagna abitata si assiste a una risignificazione delle “forme grammaticali” del patrimonio territoriale rurale attuata da “nuove grammatiche” urbane. La similitudine più appropriata per descrivere questa propagazione urbana nel rurale sembra essere la pratica agraria dell’innesto: una nuova pianta, inizialmente fragile, derivante dalla saldatura artificiale tra un soggetto portainnesto, che fornisce l’apparato radicale, e una marza che assicurerà la formazione della chioma e dei frutti. Gli innesti avvengono in precisi archi temporali e tra specie affini. L’attecchimento dipende dal vigore relativo tra le due parti che concorrono all’innesto e che agiscono l’uno sull’altro. La nuova pianta è qualcosa di più della mescolanza dei due originari: l’innesto del pero sul cotogno origina un frutto dalla forma simile alla pera ma dal sapore diverso sia dal cotogno portainnesto che dalla pero da cui si è tratta la marza. Fuor di metafora, il sapore della campagna abitata è frutto dell’attivarsi di progetti individuali o di piccoli gruppi, motivati dall’aspirazione dei singoli ad abitare fuori città, dando luogo a forme di identità plurima e non esclusiva, che si manifestano in modi differenti di abitare.
Il termine si inserisce in un quadro teorico già sistematizzato da altre discipline, in particolar modo della teoria della complessità degli ecosistemi (McHarg, 1969; Thom 1980; Prigogine 1986; Odum, 1988; Acot, 1989; Capra, 2004; Lovelock, 1991): la comunità degli abitanti costituisce il principale fattore trasformativo dell’organizzazione territoriale, delle struttu¬re ambientali e delle immagini del paesaggio della campagna abitata; a loro volta, però, i fattori naturali e quelli antropici condizionano fortemente le azioni degli individui. Ciò significa che “la collettività possiede un’intenzionalità progettuale e una capacità di apprendimento che può portare alla modifica del contesto ambientale in funzione delle percezioni che gli individui hanno di esso” (Besio 2007:70). Le percezioni, a loro volta, cambiano continuamente in seguito ai mutamenti dal sistema culturale e simbolico entro cui la comunità opera; sistema che, a sua volta, è influenzato dal contesto ambientale. L’andamento evolutivo di questo “sistema di sistemi” non si sviluppa in modo linea¬re o deterministico, ma “vive di numerosi periodi di stabilità, di improvvise accelerazioni, […] in un susseguirsi di ordine e dissipazione, di immobilità e movimento” (Prigogine in Capra 1997:201).
Nei territori delle campagne abitate, i fattori naturali, unitamente a quelli antropici, caratterizzano l’ambiente fisico ospitante, mentre i fattori civili caratteriz¬zano le comunità ospitate. Questi “sistemi di elementi” hanno tempi di trasformazione molto diversi, in quanto le forme civili delle comunità insediate, essendo immateriali, cambiano più velocemente della materialità dei manufatti di natura antropica che le ospitano. Questi, a loro volta, cambiano più velocemente delle condizioni fisiche del con¬testo naturale in cui sono localizzate. Ciò significa che, mentre nello stesso arco di tempo in cui l’organismo ospita¬to cambia, gli altri due sistemi, dotati di maggiore inerzia, restano invariati. Il sistema complessivo, tuttavia, evolve nel suo complesso: “anche se permane la materialità delle forme, cambiano le percezioni, le attività e gli usi che le riguardano; cambia il significato che la comunità attribuisce alla natura ed al patrimonio ereditato dal passato” (Besio 2007:72). Nella campagna abitata le trasformazioni territoriali avvengono in tempi non prevedibili e non sono reversibili, cioè non possono ritornare allo stato iniziale. Il tempo non trascorre con velocità costante, ma è comunque una variabile che influenza le trasformazioni. Il futuro, quindi, non è prevedibile con certezza, ma le trasformazioni lente e diffusive hanno maggiore probabilità di garantirne la sopravvivenza rispetto a quelle veloci e concentrate (Tiezzi 2006; Papagno 2000).

SELF-RELIANT CITY

Termine proposto dalla corrente del bio-regionalismo (Sale 1985; UN-Habitat 1997; MacKaye 2004). La self-reliant city “valorizza le risorse locali e le utilizza in modo integrato e rigenerativo, moltiplicando i ruoli degli abitanti e le funzioni urbane, senza tuttavia sottostare all’andamento del mercato” (Zarelli 2001:52).
Il termine è stato introdotto in seguito alla constatazione della sostanziale anti-urbanità delle moderne mega-strutture urbane e delle sue conseguenze sociali ed ecologi¬che, recuperando alcuni concetti mediati dal regionalismo di Patrick Geddes, poi sfociati in tutta una serie di movimenti e associazioni che recuperano molte posizioni della landscape architecture e dell’ecologia urbana, declinate sullo sfondo dell’idea di sostenibilità (Todd, Todd 1989; Lorenzo 1998; Groundwork 2008). In questa stessa prospettiva possono essere ricondotte le più recenti esperienze di agri-civismo come i parchi agricoli, le agricolture urbane e le city farms, tutte forme il cui destino è ancora incerto (Cillo 2005).

TERRITORI LENTI

Il termine è utilizzato per superare quella scuola di pensiero che divide il mondo tra territori in crescita e territori in ritardo, come pure per superare altre tradizionali immagini geografiche che illuminano solo qualche aspetto dei contesti territoriali: le immagini della “provincia” italiana, della città media o della città d’arte, contrapposte allo spazio metro¬politano, oppure le aree di sviluppo rurale o dei distretti del turismo culturale con¬trapposte alle aree di sviluppo industriale e ai distretti turistici “forti” e di massa” (Lancerini 2004, 2005; Lanzani 2005).
La lentezza evoca non il ritardo, il sottosviluppo o la minore propensione alla crescita economica, ma piuttosto un diverso movimento; richiama un’attenzione alle pratiche dell’abitare, del lavoro e della vita quotidiana rispetto ai grandi aggregati delle analisi socio-economiche e urbanistiche; evoca “un’attitudine dello sguardo umano, una volontà a rimanere certamen¬te non indifferenti, ma comunque a qualche distanza dal veloce diluvio delle immagini […] della despazia¬lizzazione e, pure, dai tentativi di reinvenzione di un locale e di un solo spazio di contatto che ad essi si oppongono, radicalmente e volontaristicamente” (Lancerini 2004:9).
Territori lenti è una metafora che serve a far emergere ambienti di vita caratterizzati da uno sviluppo locale lento che rivendica una propria alterità rispetto agli ambienti ad alta intensità di sviluppo e che sembra registrare una condizione di complementarietà e coesistenza rispetto alle aree più veloci: “sono territori fortemente caratterizzati da un paesaggio agrario sempre meno univocamente definito, dove una serie di attività settorialmen¬te differenti si intrecciano dando luogo a miscele paesistico-insediative che non comportano, almeno per ora, fatti urbani particolarmente evidenti, ma piuttosto processi di lenta metamorfosi interna. Connotati da un movimento a basso numero di giri, questi territori muta¬no attraverso piccoli eventi spaziali, attraverso metamorfosi di significato, di forme relativamente stabili, invisibili nelle consolidate immagini interpretative che qui sembrano perdere ogni valenza euristica” (Lanzani 2005:7).
L’immagine dei territori lenti si configura come un viaggio attra¬verso i luoghi dell’abitare contemporaneo nei quali si sta delineando una nuova fenomenologia legata a uno stile di vita più attento ai ritmi e ai modi di vita. In questo senso è una metafora esplorativa che allude al più ampio tema dell’abitabilità, “intesa come sfida e prospettiva progettuale che consente di guardare con oc¬chio più attento anche ai luoghi congestionati delle città” (Lanzani 2005:8), e rappresenta sia un modello territoriale locale che “ha smesso di subire passivamente i processi di sviluppo imposti dai sistemi economico-territoriali imperanti” (ib.), sia il superamento dell’immagine consolidata di un territorio suddiviso in aree sviluppate e aree depresse, restituita attra¬verso una lettura dei dati statistici, del Pil o del rapporto occupati/disoccupati.

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