La sosta come strumento di appropriazione dello spazio pubblico
Architetto e dottorando presso l’Università Sapienza
Sedersi, a Parigi, è una cosa seria.
Addirittura un’istituzione, se consideriamo che da quasi un secolo in uno dei principali giardini della città, il Jardin du Luxembourg, un ruolo da assoluto protagonista lo svolge un oggetto di arredo urbano dalle forme semplici ed essenziali: la Chaise Luxembourg (Figura 1), disegnata nell’ormai lontano 1923. La concezione che la capitale francese ha saputo dare dello spazio pubblico negli ultimi centocinquanta anni, a partire dalla Belle Époque (fine XIX Secolo) – quando “nacque” il tempo libero, nell’accezione moderna del termine-, è strettamente legata al vivere la città come un dehors collettivo, uno spazio all’aperto “totale” fatto di luoghi in cui camminare e in cui sostare.Figura 1: alcuni modelli (nella variante con o senza braccioli) di Chaise Luxembourg nel parco del Palazzo di Lussemburgo. Fonte: Chiara Santini, www.jardinsdefrance.org
Del resto, “l’invenzione” dello spazio pubblico contemporaneo affonda le proprie radici proprio qui a Parigi. Come osserva Yves Clerget1, lo spazio pubblico urbano si definisce innanzitutto come uno spazio del fuori (dehors), esterno alla sfera domestica. Parafrasando Jurgen Habermas– continua Clerget- l’origine dello spazio pubblico coincide con l’atto costitutivo della nascente borghesia europea di fine Settecento, quando, nella notte del 4 agosto del 1789, a poche settimane dallo scoppio della Rivoluzione, furono aboliti privilegi e limitazioni, e si sancì il diritto per ogni cittadino “di andare e venire in tutto il regno” (Yves Clerget, 2009). È stata pertanto la libertà di movimento che ha dato il via libera all’appropriazione dei luoghi urbani da parte della cittadinanza: dalla Rivoluzione è scaturito un atto rivoluzionario che ha cambiato il volto stesso della capitale francese e di tutte le principali metropoli europee.
Dunque “camminare è una rivoluzione” (Rosario Pavia, 2016). Ma anche stare seduti lo è. L’idea di spazio pubblico che Parigi vuole dare è quella di un diffuso luogo comune, nel senso non figurato ma letterale dell’espressione, di uno spazio perciò di tutti, con una identità e con delle caratteristiche proprie. Certo, tra le condizioni affinché una strada, un viale, un parco, siano percepiti appieno dalla collettività come degli spazi pubblici vivibili da tutti, rientra –e non potrebbe essere altrimenti- la possibilità che esso sia un luogo attrattivo per il transito e per il passeggio. Ma è altrettanto importante che esso sia vissuto in un arco temporale più prolungato rispetto a quello del semplice attraversamento. Quando un determinato spazio riesce a diventare anche un luogo di sosta, la propria dimensione, spaziale e sociale, cambia considerevolmente. Una temporalità prolungata riesce a rendersi complice di situazioni e di avvenimenti che caratterizzano i vari luoghi urbani in maniera profonda e radicata. Riesce, in un certo senso, a dare a uno spazio delle caratteristiche precise e una riconoscibilità immediatamente percepibile dalla collettività.
È una percezione direttamente opposta a quella del flâneur di fine Ottocento, figura così profondamente radicata nella cultura parigina2. Il mezzo del flâneur è, per definizione, il camminamento per le strade cittadine senza una meta definita.
Egli è un artista, un intellettuale, uno spirito indipendente e orgogliosamente superiore alla massa. Egli possiede la capacità di capire e di osservare i luoghi che attraversa in una maniera più intima e sensibile di una qualsiasi altra persona. Ma risiede proprio in questo l’evoluzione culturale della concezione di spazio pubblico che Parigi sta portando avanti da almeno un secolo a questa parte: quello del flâneur è uno spazio individuale, fatto per una sola persona, che si coglie appieno tramite l’atto stesso del camminare. Il “vero” spazio pubblico parigino è, invece, di tutti. È un luogo comune, che si vive e che si percepisce nel tempo attraverso l’atto di stare seduti insieme. Se il flâneur è un osservatore esterno (dehors), colui che si ferma – lo stationneur – potremmo definirlo – invece vive e si trova dentro (dedans) lo spazio.
Sull’importanza dello spazio pubblico innanzitutto come di uno spazio di sosta – a Parigi – se ne ha piena consapevolezza da tempo: è degli anni ’20 infatti la sopracitata Chaise Luxembourg oggetto dal design semplice ed essenziale che ha rivoluzionato lo stare all’aperto dei parigini. Voluta dal Senato della Repubblica per rispondere alle necessità dei sempre più numerosi cittadini che affollavano i giardini di Lussemburgo (nel cui omonimo Palazzo si era stabilito il Senato, ivi ospitato ancora oggi) e che sentivano il bisogno di poter sostare e riposare di tanto in tanto, la sedia ha avuto talmente successo che è stata poi prodotta in serie e posizionata anche in altre aree verdi della capitale (nei Jardins des Tuilieries, al Jardin des Plantes, nel parco interno al Palais Royal…) e ancora oggi una sua reinterpretazione viene fabbricata e commercializzata da un’azienda di arredo per esterni3. Essa può essere considerata a tutti gli effetti come uno dei simboli di Parigi, e come un elemento stesso del paesaggio, al pari della sagoma della Torre Eiffel, di un bistrot o di un bouquiniste del lungosenna. La Chaise Luxembourg è lo strumento chiave di quella appropriazione dello spazio pubblico su cui architetti e urbanisti tanto dibattono da tempo.
Figura 2: La Place du Beaubourg negli anni ’60. Fonte: www.artitude.eu
L’importanza di questo assioma di stretta correlazione tra sosta e vivibilità dello stare all’aperto a Parigi è evidente in molti altri casi. In primis, in una delle piazze più frequentate e celebri della capitale francese: Place Georges Pompidou (già Place du Beaubourg; Figura 2, Figura 3). Fino agli anni ’70 questo grande “vuoto” nel centro di Parigi non era che un terrain vague, un parcheggio anonimo e alienante, uno spazio senza una configurazione ben delineata e che aveva necessità di trovare una propria identità. L’intervento di costruzione del Centre Georges Pompidou (1973-1979) è stato rivoluzionario proprio per il modo in cui si è posto questo problema. Ora, la “macchina” proposta da Piano, Rogers e Franchini è stata scandalosamente innovativa per l’epoca ed è tutt’oggi giustamente celebrata, ma probabilmente, più che l’edificio in sé – un vero dissidente senza alcun dubbio – l’oggetto che ha veramente stravolto la città non è il museo in sé, ma è ciò che gli sta davanti: la nuova piazza ha capovolto la fisionomia del quartiere, gli ha dato quell’identità di cui aveva disperatamente bisogno e l’ha resa un luogo a tutti gli effetti (con la stessa accezione che ne darebbe Marc Augé4).
Figura 3: La Place Georges Pompidou a Parigi così come si presenta oggi. Fonte: http://bit.ly/2ljRBaF
La scelta fondamentale che ha decretato il successo della Place Georges Pompidou è un semplicissimo accorgimento progettuale: la pavimentazione non è in piano ma è in pendenza. Non si tratta di una casualità o di una scelta banale: l’inclinazione dà la possibilità materiale al cittadino di potersi sedere e di poter sostare nella piazza, che quindi, ancora una volta, diventa un luogo comune vissuto nel tempo e non già di semplice transito. E non è casuale neanche che il principale artefice del progetto sia italiano: Renzo Piano (n. 1937) ha tratto ispirazione da una celebre –italianissima- piazza “in pendenza”: Piazza del Campo a Siena, dove la mancanza di sedute vere e proprie viene sopperita senza problemi dall’inclinazione della “conchiglia”5.
Nella capitale francese il tema è pertanto sempre stato terreno di riflessione e di sperimentazione, che hanno portato – come è inevitabile quando si sperimenta – a polemiche e a dibattiti anche piuttosto accesi. La rivisitazione dello spazio pubblico urbano come luogo vissuto, proprio in quanto luogo di sosta, ha coinvolto negli anni Ottanta anche il mondo dell’arte contemporanea nel suo rapportarsi con l’architettura storica. Nel centralissimo Palais Royal, quella che fu la residenza dell’onnipotente Cardinale Richelieu (1585-1642) (prima che la monarchia – con Luigi XIV – si trasferisse a Versailles), il tema del palinsesto viene declinato in funzione di una concezione “artistica” dell’atto di ripensare la città. Nel 1986 l’artista francese Daniel Buren (n. 1938) inaugura un’installazione permanente, denominata Le Deux Plateaux (Figura 4), che stravolge profondamente l’immagine e la fruizione stessa dei cortili del Palazzo.
Figura 4: Cortile d’onore del Palais Royal (Ière Arr.) con in primo piano le colonne dell’installazione di Daniel Buren (1986). Fonte: http://bit.ly/2jXe14l
Tra la solennità del livello storico dell’edificio, egli inserisce un nuovo livello, fatto di una serie di colonne tronche, di differenti altezze e bicromatiche (marmo bianco di Carrara e marmo nero dei Pirenei, i materiali più nobili). Le colonne sono per la maggior parte piuttosto basse, ed è difficile pensare che l’artista, nel progettarle, non avesse preso volutamente in considerazione il fatto che i visitatori si sarebbero appropriati dell’opera usandole come sedute. Probabilmente l’intento era proprio questo: contaminare l’austero e solenne Palazzo con delle folies pensate per stravolgerne l’uso, in maniera tale che i cortili non fossero più dei semplici spazi di transito ma dei luoghi aperti alla socializzazione, ad esibizioni artistiche e alla sosta in generale.
Ed è questo che, come si può ben immaginare, ha cambiato tutto.
Figura 5: La Chaise Luxembourg ha avuto un tale successo da trovarsi anche in altre città della Francia: qui in versione azzurra a Nizza, dove le è stato dedicato addirittura un piccolo monumento sulla Promenade des Anglaise. Fonte: http://bit.ly/2km6JFL
NOTE
[1] Yves Clerget, in «Faire place a la place!»- Centre Georges Pompidou, Parigi, 2009.
[2] Il termine flâneur prende spunto dal verbo flâner (camminare, gironzolare) e fu utilizzato per la prima volta nel 1863 da Charles Baudelaire, in un celebre articolo apparso su Le Figaro, per identificare l’artista, concepito come uno spirito indipendente e come un raffinato esteta.
[3] Una rielaborazione in chiave contemporanea della Chaise Luxembourg del 1923 viene ancora oggi prodotta e commercializzata dall’azienda francese Fermob, che la propone in diversi colori e dimensioni.
[4] Nel suo testo del 1992, Introduzione a una antropologia della surmodernità, l’etno-antropologo francese Marc Augé (1935,-) stabilisce una differenziazione tra luoghi e non-luoghi asserendo che i primi, rispetto ai secondi, sono dotati di tre caratteristiche principali: sono identitari, relazionali e storici.
[5] Molti parigini chiamano la Place George Pompidou semplicemente la Piazza. Nelle sue immediate adiacenze, tra l’altro, si trova un edificio che riporta l’iscrizione Le Piazza Beaubourg, situato in rue Saint-Martin, 156 (Quartier de l’Horloge).
BIBLIOGRAFIA
Augé, M. (2009), Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano
Bertrand, M.J. & Listowsk, H. (1984), Les places dans la ville: lectures d’un espace public, Dunod/BORDAS, Parigi
Fontana, A., Matteucci Lombardi, T., Miotto, L. & Palumbo Fossati, I. (1985), La Place et la Ville, Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Parigi
Pavia, R. (2015), Il passo della città. Temi per la metropoli futura, Donzelli Editore, Roma
Piano, R. & Rogers, R. (1987), Du plateau Beaubourg au Centre George Pompidou. Entretien avec Antoine Picon, Editions Centre Pompidou, Parigi